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L' officina

Immagine officina seppia .jpg
 Giro per casa, senza una meta, guardo verso la camera-studio, i miei occhi si posano su una fotografia appesa al muro.

È una vecchia fotografia, color seppia, un po’ sciupata dagli anni, che ritrae un gruppo di operai in posa all’interno di un cortile di un’officina meccanica.

In piedi, in quarta fila, c'è un uomo che in mano impugna una squadra metallica. Quell’uomo è il mio nonno materno. Dietro di lui un portone chiuso, in legno, fa da fondale a tutto il gruppo. Ad uno dei suoi lati, appoggiate contro un muro in mattoni, vi sono delle barre, dei tubi in metallo, materie prime da lavorare. Sull’altro lato del portone una pianta si spinge verso l’alto.

Seduti a terra, davanti al gruppo degli operai vi sono cinque bambini - l’età presunta è tra gli otto e i dieci anni - che hanno in mano dei pesanti martelli. Uno di questi è appoggiato su di una grossa incudine posta al centro di loro.

Ti guardano con i loro visi rotondi, segnati dalle tracce del lavoro. Lo sguardo è fermo fisso su di te, muti ti stanno osservando. Sono infagottati nei loro abiti da lavoro, con le scarpe chiodate ai piedi, e l’immancabile berretto a visiera calcato sul capo ne completa la figura.

 

Questa fotografia è stata scattata a cavallo degli anni tra il 1915 e il 1918. La data riesco a circoscriverla con una certa precisione perché mia nonna mi raccontava: che durante la “Grande Guerra”, chi in giovane età aveva passato un periodo al fronte, a ripristinare le linee telefoniche sotto il fuoco nemico, in virtù di una legge speciale, veniva allontanato dal fronte per andare a lavorare nelle fabbriche che producevano materiale bellico. Almeno questa era versione che lei mi aveva raccontato.

Tutti questi operai sono facilmente riconoscibili nella fotografia perché portano una fascia particolare, avvolta al braccio sinistro. Ne conto circa una decina.

Mio nonno è fermo in posa statuaria con lo sguardo rivolto verso il fotografo - come d’altronde tutti gli altri - . Un corto paio di baffi, inclinati verso il basso, gli occhi scuri, sono i tratti salienti del suo viso.

Nella mano sinistra - quella del braccio con la fascia - regge la squadra metallica che serve per misurare gli angoli retti sui pezzi meccanici. La impugna schiacciandola contro la giubba - che è rigorosamente abbottonata e chiusa al colletto - , dove si vede che un foulard incrociato di colore scuro gli avvolge il collo. Volendo, si riescono a contare tutte le dita della sua mano, che sono parallele - pollice compreso - e premono la squadra verso il corpo, quasi si trattasse di una sciabola sguainata, esposta per una parata.

Lui, in quell’officina, svolgeva il lavoro di aggiustatore meccanico, e quella squadra lo rappresenta. Ma il dato più singolare di questa storia è - sempre a detta dei racconti della nonna - che lui nel suo lavoro (doveva adattare con l'ausilio una lima diversi pezzi meccanici tra di loro) consumava una lima al giorno!

Lavorava presso un'officina meccanica a Pianezza (TO), e lì che la nonna l’ha conosciuto e poi sposato. Lui era originario della Romagna. Il nonno è morto prima che io nascessi, questa fotografia e i racconti della nonna sono i pochi elementi storici che ne delineano la sua figura. Le sue tracce.

Anche la nonna nel suo lavoro non si era risparmiata, aveva lavorato in un cotonificio con i tempi ed i ritmi di lavoro di inizio secolo.

Guardo le altre persone, rigide nella posa, alcuni appoggiano, la mano libera, alla cintura dei calzoni e reggono fieri un mozzicone di sigaretta. Uno forse il più trasgressivo, il mozzicone lo serra di traverso tra le labbra, abbozzando un sorriso provocatorio.

Nella fila centrale, un uomo appoggia entrambe le mani sul ginocchio che è sollevato da terra. Ha lo sguardo frontale con il sopracciglio dell’occhio sinistro leggermente aggrottato, ironico. Il busto è posto di traverso. Se non fosse per l’uniformità dei vestiti e la situazione in cui si trova sembrerebbe un dandy ospite ad un party, ma è anche l’unico del gruppo che si caratterizza in questo modo, sembra distaccato, assente.

A compendio dei vari personaggi, vi è poi una serie di ruote dentate, di grosse pulegge, sparse ai bordi del gruppo.

Una scaletta in metallo (ad uso per le trincee? o per automezzi?) è esposta dall’operaio posto in piedi a sinistra della fotografia. Vi è poi una selva di martelli, di tutte le dimensioni, impugnati dagli stessi operai.

Osservo i loro visi, noto i particolari, un senso di fierezza e di dignità prevale da quelle persone, si espande verso l’esterno, e come se addirittura dovesse emergere dalla fotografia.

È lo stesso senso di appartenenza e di dignità che si ritrova nelle persone del quadro di Pellizza da Volpedo; “Il Quarto Stato”.

La fatica dei secoli precedenti che ha caratterizzato le vite delle nostre famiglie, noi oggi la portiamo dentro di noi, fa parte del nostro patrimonio genetico.

Del nonno, in un cassetto, racchiuse in una scatola, rimangono a testimonianza del suo passato, un paio di fotografie sbiadite e una medaglia di bronzo commemorativa della guerra del 1915-18.

E il suo nome “nonno Paolo”, coniato nella storia di famiglia.

 

 

 

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