Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Mar, 24/06/2014 - 08:37
Quel pensiero gli mordeva lo stomaco, si fermava lì per poi espandersi piano. Lui il nero abisso lo viveva, istante dopo istante, davvero gli pareva vivere un’assenza “nel muto orto solingo”, gocce stillate d’amarezza, e non riusciva ad emergere dall’angoscia di quel vivere che gli serrava la gola.
Tutto era diventato “pesantezza del vivere”. Conservava quell’inutile e inopportuna castità, al confino in quel paese calabro, pensando a lei, a quella donna dalla voce rauca, che amava un altro uomo. La vita circuiva gli spazi, e lui soffocava la noia con qualche verso classico, recitato in greco antico, che serviva a tirar sera, tanto la notte tornava sempre, come una compagna fedele sotto le piatte stelle.
A tratti, come una nebbia, la malinconia saliva dalle colline del ricordo, e Santo Stefano Belbo sembrava apparire lì, a distanza di braccio, gli pareva di poter sfiorare con le dita i tetti del paese, poi il ricordo si attenuava e lui si assopiva nella noia pomeridiana in un tempo condiviso tra i grilli e la campagna.
Ma il pensiero s’impennava feroce, tornava prepotente su di lei, quasi una pesante catena legasse la sua solitudine al ricordo di quell’unica donna amata. Allora, dei versi si formavano nella sua mente, e crescevano lenti, facendosi man mano compiuti, mentre la sera accoglieva la sua nostalgia.
*« Queste dure colline che han fatto il mio corpo/ e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio/ di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla./ L’ho incontrata una sera: una macchia più chiara/ sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate./ Era intorno il sentore di queste colline/ più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò/ come uscisse da queste colline, una voce più netta/ e aspra insieme, una voce di tempi perduti.»
* Versi di “Incontro”, nella raccolta “Lavorare stanca”, dedicati da Cesare Pavese a Tina Pizzardo.
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