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Di Eco in Eco

Pendolo di Foucault. Immagine del web, particolare.
 
Sarei partito proprio da lì, da quelle pietre degli scalini che salivano all'Abbazia, non era una gran premessa ma di sicuro era un incipit. “Il nome della Rosa” mi aveva catturato sin dalle prime pagine, il fascino di un luogo chiuso, Convento o Abbazia, di una comunità che viveva con proprie regole (che scandivano lo svolgersi della giornata), sbarrata al mondo esterno, mi affascinava e racchiudeva in sé tutto il sapore del mistero.
Mistero per mistero, un giallo all'interno dell'Abbazia era poi una succulenta preda per le mie notti insonni. Ma davvero il racconto è una macchina per generare interpretazioni? Erano le emozioni che salivano in superficie, che galleggiavano come frammenti di un naufragio negli anfratti della mente. Sì, il romanzo era ed è un generatore di emozioni. E il fil rouge mi riportava diritto al “Pendolo di Foucault”. Che dire...  volevo riprovare nella mia casa quella meraviglia di dimostrazione scientifica sulla rotazione terrestre? È vero, il romanzo di Eco, “Il Pendolo di Foucault”, non ha una trama, non ha un tempo e non ha un’azione. Ma l'esperimento scientifico condotto da Léon Foucault nella cupola del Panthéon di Parigi sì. Armeggiavo con il lampadario di casa, zavorrando ipotetici pesi: un secchio di ferro zincato colmo d'acqua con un chiodo incollato al di sotto, proprio nel suo centro. Poi, con un gioco di corde, ero riuscito a posizionare quell'improvvisato gnomone pronto a scalfire un letto di sabbia spesso e ben spianato su di un cartone adagiato a terra. La sabbia era quella che serviva per rinnovare la lettiera dei bisogni del gatto che mi avrebbe odiato nei giorni successivi. Mi fissava con aria di sufficienza, muovendo nervoso la coda, disapprovando le mie farneticazioni. Ora in quel laboratorio improvvisato tutto era pronto per l'esperimento. E come un racconto è una macchina per generare interpretazioni (la citazione è di Umberto Eco), così quel marchingegno doveva fornirmi le conferme scientifiche, suffragare la tesi di quel francese. Un colpo e via, e quell'improvvisato pendolo era partito. Passavano le ore e controllavo con ansia eventuali tracce sulla sabbia... ma forse c'era qualcosa che non quadrava. Non avevo la mandata del cavo alta di 70 metri, non avevo un peso sferico di 30 Kg (il mio era un misero secchio tronco conico), e forse mi mancava sopra la testa – ecco proprio quella - la cupola del Panthéon.
E se la terra sotto i miei piedi non voleva ruotare allora ruotavo io. Giravo pagina. Abbandonato “Il Pendolo di Foucault” avevo preso a sfogliare “L'isola del giorno prima”. E sull'assedio di Casale sentivo il rombo dei cannoni che sovrastava il rullo dei tamburi e gli squilli di tromba. E sulla cittadella sentivo l'infrangersi, il cozzare, l'esplodere delle palle di ferro e fuoco tra i rivellini, e le schegge di pietra riversarsi sugli spalti dei difensori.
Ma voglio navigare anch'io come Roberto de la Grive (che vede per la prima volta, “nell'Isola del giorno prima”, cieli, acque, uccelli, piante, pesci e coralli che non sa come nominare) sul mare cibernetico di Internet. Solcare scritti di prosa e poesia, leggere inediti di identità lontane, sconosciute... L'isola è ora qui, stretta in una morsa, tra le pagine del Web. Chiudo la copertina del libro, pagine stampate, testimoni di tempi lontani scaturiti dalla scintilla dell'ingegno di Gutembergh e accendo il Personal Computer, miraggio dell'architettura del matematico John von Neumann e mi immergo in uno spazio privo del tempo. E se un racconto è una macchina per generare interpretazioni, il Web è una macchina, un tappeto volante per viaggi virtuali, e i Siti sono davvero l'isola ritrovata.

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