Io che vi parlo e ascolto, miei lettori,
Sono la Santa che visse in quarantena, per far sapere al mondo d'esser viva... E
che morir si può... Ma non si deve.
Il mio nome si perde tra i meandri, di chi ordì una serie di misfatti, per far sapere a tutti che non ero così buona e casta, come mi palesavo. Mi accingo ad un ritorno per il quale, sento dover svelare quel mistero che non si teme perché fa paura. E presaghi del male si ritiene che oltre il nulla, non ci sia che il niente... Le cose che vi dico son reali, ma non c'è tempo per “verificare”.
Scrivente, stai ascoltando la mia voce, senza capire... Solo un attimo fa, tu mi dicevi: “Che cosa mi succede? Ti vedo... Proprio io... che ti ignoravo... Ci sono persone molto più degne, molto più devote di me. Tu sai quanto mi sia difficile soffermarmi su storie dolorose: la mia impressione risale a quando ero bambina: ti vidi in una effige con il viso sconvolto, e davanti a una bara con una lunga croce sopraelevata. Io non sapevo la tua storia... So che è tremendo dir “Non ti conosco” e mi dicevo, che sicuramente, eri una Santa, ma al di là del tempo. Evitavo le immagini sacre, non perché non le volessi, ma per paura di me, di quei pensieri che possono venire involontari, quando non ci sorregge una certezza.”
“Non mi hai ignorata: mi tenevi nascosta. E quanto al nome, lo ritenevi scialbo e impersonale... Ma sappi che ogni nome, diventa bello, in grazia della Fede. È mio desiderio dirti quel che mi accadde recentemente, nei dintorni di Brescia. Ma, innanzitutto, è necessario che tu conosca la mia storia, nella sua pienezza, risalendo al mio nome.
Per quanti non mi videro, né seppero di me, io fui Margoth, la dolce fanciulla che si addormentò all'ombra di un roseto, sognando il suo amore Italiano.
Mi risvegliai stranita... in un nuovo paese: era l'Italia. Non c'erano abitazioni, ma solo una cappella. Entravo; mi inginocchiai, invocando la Vergine. Poco dopo incontravo una signora, in abiti dimessi. Ella mi si guardò dolcemente, e, facendosi, vicina mi si rivolse con un mesto accento: “Rituzza, cu' ti porta diste parti?...” Angosciata, risposi nel mio Tedesco Bavarese: “Che cosa mi succede?” Rivelando il proprio disarmante senso materno, rispose:
“Niente, a' mamma.”
“Siamo a Messina” mi disse Caterina: “Io ti sento dei nostri; non devi aver paura... Iu sono Messinese, di Giampilieri... Cussì va u munnu... So nata ca', ma nuddu mi canusci... Solu li mei radici (i progenitori), sannu u me' cori affrantu.”
Non si era nel milleseicento, come i falsi storiografi, vollero far credere, ma alla vigilia della Grande Guerra. Caterina mi prese con sé e mi condusse nella propria miserrima abitazione, in una collina, in provincia di Messina. Là, al riparo da sguardi indagatori, Ella voleva essere libera, nel proprio viatico.
Noi fummo dedite all'assistenza dei malati di lebbra, cui si aggiunsero i gli appestati... che erano privati di tutto e e venivan lasciati morire per evitare il diffondersi dell'epidemia. Facevamo la questua. I soldi che giungevano alla cappella, ove eravamo solite recarci, giungevano, attraverso una rete di corrispondenza, con profughi di ogni parte d'Italia e del mondo.
Noi eravamo mistiche, ma non votate al monachesimo; l'abito ci fu imposto; lo accettammo nella grazia del Signore e per la riconoscenza dei sofferenti.
La mia esistenza di novella suora, si chiuse nel fiore degli anni, per una congiura, all'insaputa di Caterina. Avevo ventun'anni e il sogno di un abito da sposa.
*continua...*
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