Scritto da © Giuseppina Iannello - Mer, 17/01/2018 - 09:12
Rientravo ad Urbino, risoluto a far cambio di cattedra con quella del Professore Carmine Rao.
Non indugiavo quindi, a presentare al Preside dell'Istituto Aleardi, di Firenze, la candidatura al ruolo di docente di lettere latine nel corso D, in considerazione della possibilità, contemplata dalle ordinanze ministeriali, di poter accedere alla docenza in un Istituto, di qualsiasi ordine e grado, su mia richiesta e indicazione. Facendo presente che già avevo ottenuto dal Professore Rao la delibera a inoltrare la domanda, e spiegando le motivazioni del nostro accordo, chiudevo la lettera, con la preghiera, di vagliare la situazione.
Il preside mi rispose tempestivamente, dicendo che se il mio desiderio, era quello di insegnare, all'Aleardi, nel corso D, non avrebbe avuto remore, nel convalidare la mia richiesta. Mi invitava però a riflettere ancora... Perché certe decisioni sono determinanti, ai fini delle nostre aspettative. Gli mandai un telegramma, nel quale ringraziandolo delle attenzioni, gli dicevo di non farsi scrupoli, perché avevo ponderato la mia scelta, fondata su impellenti esigenze.
Alcuni giorni dopo, ricevevo la nomina. Quando mi presentai, il Professor Pergusani, preside dell'Istituto, mi veniva incontro e mi diceva: “Professore, in bocca al lupo...” Gli rispondevo: “Preside, io la ringrazio, ma non voglio vedermi nelle fauci di un lupo... Se poi quel lupo sono gli studenti, inorridisco...” Il capo di Istituto si strinse sulle spalle... Poi, sorridendo, mi disse: “Allora, auguri... Ma certe cose gliele devo dire... Sappia che quella classe di cialtroni dove ora andrà, ha messo in serio rischio la salute del professore Rao.” Risposi: “Sono stato informato; farò del mio meglio per tenerli buoni, ma non per contrappormi a un professore che è molto bravo e molto preparato...” “Lo so,” rispose il Preside, ”noi lo abbiamo avvisato dell'avvenuto cambio, sperando tanto che il nostro telegramma, lo trovasse guarito... Invece, ci ha risposto che è felice... Tanto felice per lei, però si sente molto debilitato... Forse non può accettare il posto in facoltà.” Mi fece male, sapere queste cose... Mi sentii quasi in colpa... Già non vedevo l'ora di ritornare a casa per scrivergli una lettera: ”Professore, guarisca, non demorda... Carmine, tienti su.”
Entravo nella classe III liceo, da quei ragazzi che erano i peggiori. Nell'entrare, sentii come un boato... E uno strano respiro di sollievo, come per dire:“Ci siamo liberati di quel vecchio, tisico, che con la scusa di essere malato, ci assilla con i compiti per casa...”
Il frastuono era appena terminato; facevo un discorsetto di presentazione; poi, volendo scrutare il loro cuore, dissi: “Il vostro professore, non c'è, perché è malato; comportatevi bene... Perché se avrò la sorte di vederlo, voglio dirvi di voi...” Si alzava il più loquace, che per giustificarsi, mi diceva: “Se egli sta male, quella malattia, se l'è voluta, perché tossiva sempre per farci impietosire. Le sue lezioni, non erano esaurienti, però egli ci assillava, coi compiti per casa.” Mi dissi che era il caso di rispondere con autorevole fermezza: “Il professore è triste per il vostro contegno. Forse c'è un po' di tempo per domandargli scusa. E' bene che sappiate che non fingeva; egli è malato veramente. E voi, gli avete impedito di spiegare come avrebbe voluto; abbiatene rimorso.”
Qualcuno disse: “E' vero, ce ne eravamo accorti...” Ma il solito, si alzò ancora e disse: “Se egli era malato, non doveva avere la pretesa di stare in mezzo a noi che siamo sani e vivi.”
Quella risposta suonò per me come uno schiaffo, sebbene fossi ancora nell'età giovanile.
“Sesturzi, come si permette!?... Venga alla cattedra....” Sesturzi venne; dal mio cassetto traevo la verga... Severamente, ma passando al tu gli dissi: “Sesturzi, porgi le tue mani.” Sesturzi mi guardò quasi stranito... Ma, poi, chinando il capo, mi porgeva le mani... Gli davo due vergate sul palmo di ognuna... ed egli le accettò perché vidi le guance diventare di porpora.
Dopodiché, intenerito, gli dissi: “Ora cedimi il quaderno. Ti assegno dieci frasi: cinque dal Latino, cinque dall'Italiano; le svolgerai nel corso di questa settimana.”
Vedevo che il ragazzo, mi porgeva il quaderno, docilmente, senza alcun astio; era evidente che chiedeva affetto... Quando gli resi il suo quaderno, mi disse: “Professore, io l'apprezzo e le chiedo perdono... Avrei voluto dire anche all'altro le stesse cose; non so perché sia stato così cieco.”
Con un cenno del capo lo assolvevo, ma, idealmente, lo stringevo al cuore.
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