Scritto da © Giuseppina Iannello - Dom, 01/09/2013 - 17:26
Ero rilassato; la conversazione notturna con la mia sposa era stata salutare, anche se c'era stato di mezzo un naufragio.
Catanzaro... L'indicazione era un po' vaga... ma avevo tutto il tempo per chiedere al mio Amore: “Cara, a quale porta dovrò bussare?”
Intanto, nel piccolo ospedale, si preannunciava una mattina all'insegna dell'originalità. Eran all'incirca le dieci e si aspettava il medico primario, che avrebbe dovuto constatare i deficit immunitari di ciascuno di noi. In quella casa, molti erano sordomuti; io, ero l'unico apoplettico.
Il dottore arrivò e, quando fu il mio turno: “Bene,” mi disse, “quali sintomi avete? Anzi, ditemi prima: avete riposato questa notte?”
“Dottore, ho riposato bene; ma è stata l'unica notte, da quel terribile 1711.”
Il dottore mi guardò con falsa ilarità:
“Ah... perché lei...”
Annuivo.
“Ma non dica sciocchezze!
Ma dovevo immaginarlo!... Lei, invece di andare al manicomio, ha preferito venire da Noi!”
Il sangue me lo sentii nuovamente alle tempie... E se avessi avuto un frustino, a portata di mano, lo avrei usato volentieri.
Fuori di me, gli dicevo: “Ma lei che cosa pensa?... Che se avessi avuto il tempo e l'opportunità, non sarei andato, in una delle migliori cliniche qui, in città?
Vede il mio abito a lutto? Non ebbi il tempo di cambiarlo. E vede i segni sul mio colletto bianco? Colava il sangue, non ebbi alcun aiuto...
Se non quando perso nella città, un signore ricoverato non si accorse del mio disagio e mi chiamò. Egli, affacciato al davanzale, mi fece un cenno, come a voler dire: si faccia forte; mi manda il suo papà. Si era accorto, infatti, che avevo dato una sbirciata verso l'interno, e nel vedere tante gole fasciate, avevo avuto una grande impressione.”
“Si calmi,” disse, il dottore, “non sapevo...
Ma sappia che le macchie, anche se sbiancate dall'acqua piovana, furono sempre sangue... E lei deve saper che questo è un ospedale dove vengono visitati, anche i bambini...
Pertanto, se è convinto delle sue parole, altrettanto convinti siamo noi: la mandiamo a disinfettarsi dai germi e ad indossare un abito pulito.”
“Perché,” domandavo, “sentite, qualche odore ripugnante?”
“No, non direi, ma il sangue ci impressiona.”
“Io le faccio presente, che è stata una ecchimosi.”
Infine, il medico,stanco di essere contrariato, mi si rivolse in tono del tutto sgarbato.
“Lei, è un maleducato” mi disse “perché ha manipolato il quaderno posto sul mio scrittoio, ed io, come faccio a sapere... Chi mi dice se lei prima non abbia manipolato anche il suo colletto!? E, poi, non si permetta di dare spiegazioni mediche a un tutore della sanità!”
Ero al massimo dell'indignazione.
“Andate al diavolo!” gridai. Uscivo, furibondo.
Dopo quello scatto, mi sentivo più leggero; ora mi avviavo verso la chiesa di Santa Caterina.
Catanzaro... L'indicazione era un po' vaga... ma avevo tutto il tempo per chiedere al mio Amore: “Cara, a quale porta dovrò bussare?”
Intanto, nel piccolo ospedale, si preannunciava una mattina all'insegna dell'originalità. Eran all'incirca le dieci e si aspettava il medico primario, che avrebbe dovuto constatare i deficit immunitari di ciascuno di noi. In quella casa, molti erano sordomuti; io, ero l'unico apoplettico.
Il dottore arrivò e, quando fu il mio turno: “Bene,” mi disse, “quali sintomi avete? Anzi, ditemi prima: avete riposato questa notte?”
“Dottore, ho riposato bene; ma è stata l'unica notte, da quel terribile 1711.”
Il dottore mi guardò con falsa ilarità:
“Ah... perché lei...”
Annuivo.
“Ma non dica sciocchezze!
Ma dovevo immaginarlo!... Lei, invece di andare al manicomio, ha preferito venire da Noi!”
Il sangue me lo sentii nuovamente alle tempie... E se avessi avuto un frustino, a portata di mano, lo avrei usato volentieri.
Fuori di me, gli dicevo: “Ma lei che cosa pensa?... Che se avessi avuto il tempo e l'opportunità, non sarei andato, in una delle migliori cliniche qui, in città?
Vede il mio abito a lutto? Non ebbi il tempo di cambiarlo. E vede i segni sul mio colletto bianco? Colava il sangue, non ebbi alcun aiuto...
Se non quando perso nella città, un signore ricoverato non si accorse del mio disagio e mi chiamò. Egli, affacciato al davanzale, mi fece un cenno, come a voler dire: si faccia forte; mi manda il suo papà. Si era accorto, infatti, che avevo dato una sbirciata verso l'interno, e nel vedere tante gole fasciate, avevo avuto una grande impressione.”
“Si calmi,” disse, il dottore, “non sapevo...
Ma sappia che le macchie, anche se sbiancate dall'acqua piovana, furono sempre sangue... E lei deve saper che questo è un ospedale dove vengono visitati, anche i bambini...
Pertanto, se è convinto delle sue parole, altrettanto convinti siamo noi: la mandiamo a disinfettarsi dai germi e ad indossare un abito pulito.”
“Perché,” domandavo, “sentite, qualche odore ripugnante?”
“No, non direi, ma il sangue ci impressiona.”
“Io le faccio presente, che è stata una ecchimosi.”
Infine, il medico,stanco di essere contrariato, mi si rivolse in tono del tutto sgarbato.
“Lei, è un maleducato” mi disse “perché ha manipolato il quaderno posto sul mio scrittoio, ed io, come faccio a sapere... Chi mi dice se lei prima non abbia manipolato anche il suo colletto!? E, poi, non si permetta di dare spiegazioni mediche a un tutore della sanità!”
Ero al massimo dell'indignazione.
“Andate al diavolo!” gridai. Uscivo, furibondo.
Dopo quello scatto, mi sentivo più leggero; ora mi avviavo verso la chiesa di Santa Caterina.
La custode era là, di fronte alla gradinata. “Ti aspettavo mi disse con aria dolce e compassata. È venuta tua madre e mi ha informata, che saresti venuto. Vieni, prendi una sedia; c'è ancora una bell'aria. Provvederò a farti indossare quel vestito che mi lasciasti, sentendoti forse, in imbarazzo. Io te lo avevo messo vicino alla tua valigetta, ma Tu, chissà cosa hai capito.”
“Non ho capito nulla, vi assicuro, sarò stato distratto.”
“E, allora, vieni a casa mia; c'è pure una casetta che si affitta; garantisco per voi. Abbiate speranza.
In ogni venerdì, qui si costuma fare una fiaccolata alla Santa e chiederle che si realizzi un desiderio.” Spontaneamente chiamavo donna Silvia, comare.
“Comare, io avrei bisogno di una casa, ma non posso pagar la pigione, perché prima... capite... Mi abbisogna un lavoro.”
Rispose: “Hai fatto bene, figlio a dire pane al pane, vino al vino ed io ti aiuterò; puoi starne certo. Quell'arrabbiatura col medico, io me la sentivo... E devo dirti che chiunque al tuo posto, non ce l'avrebbe fatta a ingoiare l'offesa.
Ma andiamo alla casetta che ho in mente di assegnarti. Sappi che appartenne a un ammiraglio, che mi dava un incarico: assegnarla quand'ei fosse passato a miglior vita, a un indigente, o anche due, in cambio di una messa quindicinale.
Avrei voluto parlarti subito dell'opportunità che ti si offre, ma pensavo che un'abitazione già l'avessi, e non c'è stato il tempo di parlare.
Ascolta, andiamo dietro la chiesetta; vedremo un porticato che immette alla piccola abitazione; all'ingresso troverai il lavatoio da una parte e il cucinino dall'altra; al piano di sopra, ci sono due stanzetta, una funge da piccolo studio, l'altra da cameretta.”
“Signora, le dicevo...”
“Dimmi comare, Ti prego.”
“Comare, le dicevo, visto che la casa c'è, ne approfitto per darmi una rinfrescatina, anche se vi assicuro, ci siamo lavati tantissime volte, prima con l'acqua piovana, poi alla Graduchelle che è un lido speciale.”
“Aspetta, mi fecisti recurdari, che lì incontravo sempre Peppino, il giornalaio, il quale portava le edizioni speciali, a quanti volessero cercar moglie, senza muovere un passo.”
“Comare, avete toccato un tasto dolente; io sono vedovo sapete.”
“Figghiu, iu non ti dissi nenti che ti lu vidi in faccia il tuo dolore. Ma so che oggi siete più tranquillo e mi portate, pure buone nuove.”
“Comare, io non so come spiegarmi... Ma questa notte la mia dolce sposa è venuta; non era un sogno; mi ha raccontato di tanti episodi vissuti insieme e poi di una nave sulla quale salimmo per ritrovarci ancora insieme dopo il naufragio. La notizia più bella me la diede prima di congedarsi; mi disse: “Amore mio, ti aspetto a Catanzaro.”
La vecchina mi abbracciò. “Tu, vedi... Anch'io ho un vestito a lutto, che mi vidi murirri lu me sposo, e nella borsa tengo il suo proclama di ambasciatore della Mezza Luna.
Ti dono quattro ova; a casa te li friggi e ricordati sempre du me' cori; io ti sono parente perché tua madre fu una mia prozia. Ora, venendo a conclusione, ti dico che la casetta è esposta a levante e tutte le mattine se ti affacci mi vedrai perché io abito là, dove ci sono quelle tinozze e i pomodori appesi a riscaldare.” E così era trascorsa mezza giornata, senza che avessimo alcuna sensazione di fame o di sete. In fine, la comare, mi disse: “So che non bevete... Ma forse un bicchierino vi potrebbe tirare un po' su, nel mentre che preparo un po' di fave.”
Le dissi: “Comare, vi ringrazio; il bicchierino, non riuscirei a mandarlo giù, ma un po' di companatico lo accetto volentieri.”
La comare scoperchiò un portavivande, mi diede una mestolata di fave ed il pane da affettare. Ne prendevo una fetta; è buono, dissi: “Sembra fatto in casa.” Sorrise. “Il pane è l'ostia delle nostre mense; prendete anche lo stracchino.” Dopo aver desinato, la vecchina, mi accompagnava alla casetta. Nel salire le scale, mi diceva: “La stanza del solaio, la più inusuale, è certo la più bella perché nelle sere di plenilunio, potrete meglio ammirare la natura: è come una distesa nell'azzurra radura, di foglie come argento in filigrana.”
Dopo aver fatto gli onori di casa, la vecchina si congedava. Dopo qualche secondo, mi affacciavo alla balconata: “Comare, mi sentite?”
“Dite pure...”
“Su quale lettino, mi posso sdraiare?”
“Vi ho accomodato quello giallo, userete l'altro come divanetto... Quanto ai libri e ai giornali, non mancano; sono riposti nell'armadio.”
“Non ho capito nulla, vi assicuro, sarò stato distratto.”
“E, allora, vieni a casa mia; c'è pure una casetta che si affitta; garantisco per voi. Abbiate speranza.
In ogni venerdì, qui si costuma fare una fiaccolata alla Santa e chiederle che si realizzi un desiderio.” Spontaneamente chiamavo donna Silvia, comare.
“Comare, io avrei bisogno di una casa, ma non posso pagar la pigione, perché prima... capite... Mi abbisogna un lavoro.”
Rispose: “Hai fatto bene, figlio a dire pane al pane, vino al vino ed io ti aiuterò; puoi starne certo. Quell'arrabbiatura col medico, io me la sentivo... E devo dirti che chiunque al tuo posto, non ce l'avrebbe fatta a ingoiare l'offesa.
Ma andiamo alla casetta che ho in mente di assegnarti. Sappi che appartenne a un ammiraglio, che mi dava un incarico: assegnarla quand'ei fosse passato a miglior vita, a un indigente, o anche due, in cambio di una messa quindicinale.
Avrei voluto parlarti subito dell'opportunità che ti si offre, ma pensavo che un'abitazione già l'avessi, e non c'è stato il tempo di parlare.
Ascolta, andiamo dietro la chiesetta; vedremo un porticato che immette alla piccola abitazione; all'ingresso troverai il lavatoio da una parte e il cucinino dall'altra; al piano di sopra, ci sono due stanzetta, una funge da piccolo studio, l'altra da cameretta.”
“Signora, le dicevo...”
“Dimmi comare, Ti prego.”
“Comare, le dicevo, visto che la casa c'è, ne approfitto per darmi una rinfrescatina, anche se vi assicuro, ci siamo lavati tantissime volte, prima con l'acqua piovana, poi alla Graduchelle che è un lido speciale.”
“Aspetta, mi fecisti recurdari, che lì incontravo sempre Peppino, il giornalaio, il quale portava le edizioni speciali, a quanti volessero cercar moglie, senza muovere un passo.”
“Comare, avete toccato un tasto dolente; io sono vedovo sapete.”
“Figghiu, iu non ti dissi nenti che ti lu vidi in faccia il tuo dolore. Ma so che oggi siete più tranquillo e mi portate, pure buone nuove.”
“Comare, io non so come spiegarmi... Ma questa notte la mia dolce sposa è venuta; non era un sogno; mi ha raccontato di tanti episodi vissuti insieme e poi di una nave sulla quale salimmo per ritrovarci ancora insieme dopo il naufragio. La notizia più bella me la diede prima di congedarsi; mi disse: “Amore mio, ti aspetto a Catanzaro.”
La vecchina mi abbracciò. “Tu, vedi... Anch'io ho un vestito a lutto, che mi vidi murirri lu me sposo, e nella borsa tengo il suo proclama di ambasciatore della Mezza Luna.
Ti dono quattro ova; a casa te li friggi e ricordati sempre du me' cori; io ti sono parente perché tua madre fu una mia prozia. Ora, venendo a conclusione, ti dico che la casetta è esposta a levante e tutte le mattine se ti affacci mi vedrai perché io abito là, dove ci sono quelle tinozze e i pomodori appesi a riscaldare.” E così era trascorsa mezza giornata, senza che avessimo alcuna sensazione di fame o di sete. In fine, la comare, mi disse: “So che non bevete... Ma forse un bicchierino vi potrebbe tirare un po' su, nel mentre che preparo un po' di fave.”
Le dissi: “Comare, vi ringrazio; il bicchierino, non riuscirei a mandarlo giù, ma un po' di companatico lo accetto volentieri.”
La comare scoperchiò un portavivande, mi diede una mestolata di fave ed il pane da affettare. Ne prendevo una fetta; è buono, dissi: “Sembra fatto in casa.” Sorrise. “Il pane è l'ostia delle nostre mense; prendete anche lo stracchino.” Dopo aver desinato, la vecchina, mi accompagnava alla casetta. Nel salire le scale, mi diceva: “La stanza del solaio, la più inusuale, è certo la più bella perché nelle sere di plenilunio, potrete meglio ammirare la natura: è come una distesa nell'azzurra radura, di foglie come argento in filigrana.”
Dopo aver fatto gli onori di casa, la vecchina si congedava. Dopo qualche secondo, mi affacciavo alla balconata: “Comare, mi sentite?”
“Dite pure...”
“Su quale lettino, mi posso sdraiare?”
“Vi ho accomodato quello giallo, userete l'altro come divanetto... Quanto ai libri e ai giornali, non mancano; sono riposti nell'armadio.”
* continua *
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