Poi, salimmo i gradini lentamente...
Sul corrimano, le impronte umane del passato. E, quel percorso fatto di gradini, corrispondenti ad un secondo piano, lo sentii lieve, come una folata d'azzurro vento. Poi che giungemmo sul ballatoio, Alejandro, ci indicò la stanza a destra... Era la sala da pranzo.
Mi guardai intorno, nulla tralasciando: le pareti, piene della beltà di chi le aveva abitate, avevano sulla recente tinteggiatura, riflessi rosa ed arancio. Mi soffermavo sulla giovane ritratta che mi stava guardando: era bella, dai capelli bruni, ondulati e l'espressione che si animava di glauchi riflessi.
“Zia...” dissi sottovoce, “è molto bella... Ma... non sei tu...”
Non riuscii, lì per lì, a cogliere la sua risposta, perché coinvolta da molte cose. Tutto era stupendo: il pavimento di porfido rosso, il tavolo rotondo con le sediole nuove ed il divano, stinto... anch'esso rosso.
“Eppure...” mi dicevo, “il rosso lo detesto... Soltanto qui, mi succede di sentirlo antico e prezioso, come di una passione che si rinnova.”
La mamma e Denise erano comprese, al pari di me. Entravamo in cucina... Il nostro sguardo si posava sulle stoviglie: un servizio da tè, di porcellana Boemia... bottiglie, ancora nuove di rosolio. “Quante volte,” mi dissi, “assaporammo la torta in quei piattini... Sì, perché la mamma ne ebbe uno uguale... Ma quei piattini, ci sono tutt'oggi?”
Non ci volle granché per capire: mi persuadevo che la mia puerizia si era svolta in ritmi alterni, in due spazi diversi: l'uno, nel quale la vita, nella sua interiorità e pienezza, era rappresentata dalla mamma, con le sue due creature, l'altro, nel quale la completezza della famiglia, si esplicava attraverso il rapporto emotivo con più persone.
E d'essermi trovata in due spazi, che sovrapponendosi, armoniosamente, si completavano, ne ebbi conferma, dalle credenze, con ripiani provviste di vetrina. Nella nostra cucina, le credenze erano informali... La mamma non le volle per non sentirsi lacerare il cuore.
E non avevamo parenti, né vicini di casa, così gioviali, da invitarci, anche per un solo momento, fra l'intimità delle loro mura. I nostri mobili, chiari e leggeri, esprimevano la fragilità di una donna, cui con l'omicidio del coniuge, veniva preclusa la gioia di dare una identità alle proprie stanze.
Ma le vecchie vetrine sui buffet, m'erano amiche e le incontravo sempre...
Sì, erano proprio quelle... Le rivedevo, dopo tanto tempo, con le ante di cristallo e i bicchierini per i diversi elisir, quelli più grandi per il vermouth, quelli esigui per il rosolio; cos'era? Ne riconoscevo il sapore, ma virtualmente, come di una realtà che esula dallo spazio tangibile.
L'accesso alla camera da letto, fu il più bello e penoso al tempo stesso. Nell'ampia stanza, un letto a baldacchino, sembrava dirci di quell'eterno amore... Dall'impalcatura, in legno chiaro, scendevan trine di colore ecru. “I veli c'erano...” Spiegò Edwige, però la zia, prima di dipartirsi, disse: “Li tolgo; non permetterò che ingialliscano.”
“Zia, come fai a sapere queste cose?”
Ed Edwige: “Evelina scriveva i suoi pensieri, così come Evenanzio.” Ed io notavo per la prima volta, il nome pronunciato per esteso.
Ci incantavamo a guardare quel drappeggio: erano foglie e fiori in un intreccio... di fil di seta: alcuni erano ecru, fra interstizi d'argento, come una pioggia. La zia fece gli onori: “Fu il regalo più bello del mio sposo. Egli, prima di rivelare il suo progetto agli artigiani, mi diceva mia dolce sposa, dammi il tuo parere: l'ecrù ti piace?”
“Sì, molto.”
“E la pioggia d'argento?”
Rispondevo stringendomi al suo cuore, di averla già sentita.
...
E fu, in merito a quel colore che impreziosisce gli arredi, che mi piacque riascoltare voci già note. Come sospinte e sostenute da un dolce vento, mi giunsero parole ebbre di pioggia:
“Ci riconosci? Siamo le tue amiche...”
“Lo so” risposi... “Vi ho pensato tanto, ma non immaginavo di incontrarvi, nel sembiante di un fiore.”
“Se ci inviti, verremo al tuo salotto... Fummo fanciulle...
Ognuna fu se stessa... Ma dal cuore di ognuna, ogni vicenda fu sostenuta con lo stesso amore.
Ci riconoscerai da quelle gemme che indossammo nel fiore della vita, ed ognuna per sé.
Per il nostro tenore, fummo il fiore che un'antica leggenda configura ai margini del bosco o collocate tra incolti arbusti... Ma, a noi diede il Signore la missione di trasmigrare... Cresciamo all'aria pura, anche presso i dirupi...
Siamo i Viburni...
Bianchi, e cilestri... o blu cobalto; puoi chiamaci campanule. Veniamo con il vento e con la pioggia per rarefare il pianto di chi ha sofferto in un romito luogo e, tra l'indifferenza generale. A sera, quando l'aria è più leggera e odora di cipresso, noi ci fermiamo, presso le sepolture illacrimate. Siam la voce dei morti.”
Dopo il messaggio delle campanule, e l'invito da parte loro, a rivolgere il nostro plauso al Talamo, che mi era apparso in tutta la beltà di un solitario gioiello, la nostra attenzione girò ancora...
Non mi sfuggì l'esubero di spazio, oltre quel letto, da fiaba.
Mi ero immersa nella spiritualità della zia... una mite signora... dal cuore di cristallo, che concede al suo tempo, ampi orizzonti.
La vidi ancor nella fanciulla mesta, gli occhi castani un po' cerchiati ed i capelli lunghi, appena mossi...
La vidi nella donna che non svelò di sé, ogni intimo momento, ma volle rivelarlo a passi brevi con la maggior saggezza del suo unico amore.
Ogni dolore scaturiva sempre, attraverso le immagini, i colori ed i dolcetti... di proprio gusto, di propria inventiva.
Sentivo pienamente quella personalità... Così bella vitale, da affascinarmi.
“Ma il tuo volto non so...” Le dissi in un sussurro, lasciandomi sfiorare...
Fui coinvolta in un sogno che mi vedeva complice e partecipe dei gusti della zia; approvavo... condividevo ogni sua scelta. Le cassapanche non erano tetre, ma di un delicata tinta pastello di color verde-acqua. Ed il comò, in fondo alla testiera, aveva una specchiera singolare: sembrava una finestra tinteggiata di un lieve azzurro e sporta i mezzo al mare.
Guardammo le statuine, una per una... Nostra madre notava, in primo luogo, quella con la coppietta; lei... era molto bella, con i capelli d'oro e la manina al petto... Lui, era un morettino e si era inginocchiato per chieder la sua mano. “Guardate ancora...”
La mamma, considerata la particolare condizione... forse era stata lungamente assorta... Ora, temendo quasi un brusco risveglio, ci diceva un pensiero: “Come son belli... sono proprio loro... i protagonisti della fiaba.”
“Quale?” Chiesi con meraviglia, perché Lei era solita dirci: “Non ebbi il tempo, né la forza di leggere le fiabe, ché fui molto provata.”
Non si stupì della mia meraviglia e ci disse soltanto: “Le conosco, pur non avendole mai lette. Le ho udite; ma soltanto nel silenzio della pace notturna. Non mi sovviene il nome dell'autore, ma conosco la storia...”
- Blog di Giuseppina Iannello
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