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Anca tra i veci sbusoni de Verona le robe le cambia

Ero in preda alle vibrazioni, sia chiaro non portavo i pantaloni come un sergente Ingrassia sopra l’ombelico, ma calati a ridosso delle natiche, sciccheria, mi dicevo tra un buco ed un altro, addentavo una pera una di quelle pere croccanti profumate di sole della montagna, innevata dal caffè d’oppio macchiato di muro solitario in attesa di essere iniettato per rilasciare autonomia e benessere, per sciogliere la benzina nel corpo sciolto.
Volevo raccontarvi una storia semiseria, sali scendendo l’umore nero e capitombolando in intrusioni solfeggiate di radicale ermetismo.
Se non mi capite l’effetto swing è assicurato nel bonus malus operandi d’un attimo citrullo.
In elezioni il mio comune semiserio, si atteggia a gongolare faccioni da poster attacchini e manifesti un pò ovunque ed io come un gonzo me ne sto da una parte zitto, la politica si sa, è fatta per gente seria ed è confutazione continua dell’altrui scelta, troppo lavoro per me che sono disoccupato nella mente. Deciso ad intervenire inneggiando a qualche social network il mio appoggio mi avvicinai al SERT di casa mia, a casa stagno non piacevano quei grulli, la destra amichevolmente legata al sindaco che appoggiava alla sinistra biodegradata il peso del suo celodurismo ahi.. mi incoraggiava a seguire il look del pavido Sergente.
Al Sert di Verona alla presenza di una Serpe-leoni, amico di quel lontanissimo tomista Giò-vanardi si dava un rinfresco per l’elezione del Sindaco, il vecchio è il nuovo che avanza si diceva, per altro era assente per atti satanici in suolo pubblico, se l’era presa con il ligneo Bosso e moglie, calciando via il nuovo che avanza, diceva, il vecchio si restaura la faccia ed è più bello, i lavori pubblici in quei giorni fervevano a man bassa.
Eravamo io mio fratello Ermanno, e molti altri morti assassinati d’eroina a guardare da lassù il conviviale rimpasto, La serpe, s’intrufolava abilmente ogni dove, pure all’ombra delle fanciullesche ciminiere in fiore, tra i capannoni ancora non rubati dal governo ladrone della mela del peccato del lavoro altrui. Si dava una festa, solo per chi arrivasse in tempo utile a coglierne lo spessore dall’albero magico del desiderio si staccavano i frutti anche acerbi.
Decimato passo dopo passo all’avvicinarsi al te deum, Sboradina dava consenso ai manganelli di tuffare i depravati istinti omicidi in tonfi a ripercussione, il desco rumoreggiava chincaglierie e argentee posate venivano continuamente sottratte, il DJ roboava i suoi caleidoscopici ritmi e la folla mangiava e beveva sottraendo forze alla comunità, quelle case fatte all’uopo per tenerci insieme appunto. Ci si lasciava andare a balli e quadriglie imbarazzanti mano nella mano, sfregando i binari tracciati a mano sui bracci disfatti, svenevoli i convenevoli si faccia da una parte, si faccia dall’altra parte, si nasconda le tracce è meglio che imbarazzare la folla impaurita dal tenore d’una campagna elettorale sfacciatamente bellicosa e terroristica contro quelli della banda del buco.
Il buonismo di Dante nei gironi infernali era un semitono appena accennato, il DJ riteneva non si dovesse operare in quel senso, la musica trasaliva l’animo onesto degli elettori, si piangeva inneggiando alla padana mortadella al prosciutto al grana antico.
Il verde era sgargiante effetto collaterale d’una primavera bagnata dal sudore di operai laboriosi e tenaci mondine che mondavano in Adige il loro sogno d’amore.
C’eravamo io, mio fratello Ermanno, e molti altri che ci guardavano benevoli di lassù, gongolando fra le nubi ed il loro l’ago nel famoso braccio che si stringeva a nord in un cappio compresso. Il DJ cantava a squarciagola le serenate intime e i và pensiero su e giù per le valli un tempo d’or, ora su e giù per le valli e basta, butta giù la pasta si diceva è ora di mangiare, ma non abbiamo mangiato prima, ci si rispondeva, ma mangiamo ancora, in fondo, il fondo del barile è tutta roba nostra.
Al SERT di Verona come si dice la musica era cambiata, una voce sguaiata disse che non era più tempo di l’ago, ora con Berlucchi il tempo delle pere era finito, il tempo delle mele bacate s’instaurava, già vecchi non saremmo arrivati mai, oltre, oltre, solo il sapido sapore d’un miscuglio che t’inebria e ti rende la libertà di non essere più schiavo dell’eroina d’Italia, ma di essere amico per sempre del medico che t’ama ti protegge e ti sostiene nel tuo volgere la vita al desio, la tua poesia vergata da dotti argomenti nel segreto d’una cartella clinica, il ritmo del DJ incalzava sonanti requiem, i gongolanti pensieri arridevano di lassù.
Eravamo io, mio fratello Ermanno e molti moltissimi altri a rinunciare alla visione di tutto ciò a stomacarci del senso della vita del senso ovattato d’una morte certa e liberatrice.
Eravamo io, mio fratello e molti altri che ci guardavano di lassù a cercar spiegazioni sgomenti imbarazzati dal nuovo intruglio che non s’era ancora potuto provare, restava l’incongruente incapacità di reagire al vasto imbarazzo della folla oppositiva e gradevolmente asservita ai dotti medici e sapienti, politici marginali e trote d’assalto incappucciate dalla vergogna e dal clamore del loro raglio.
Eravamo io, mio fratello e molti moltissimi altri a guardare e di lassù ad ascoltare la voce del DJ dare l’inizio alla nuova festa elettorale ed al nostro immacolato SERT, la festa era bellissima, intrigante e caotica come le feste devono essere, una festa veronese e detta alla veronese eravamo lì in molti, metàomini e metàdone.
 

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