Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Sab, 09/11/2024 - 19:10
Le sue dita scivolavano sugli ottantotto tasti di quel pianoforte dalla livrea di un pinguino. Le sue mani… Ah… le sue mani. Vedevi gli anelli delle sue dita scivolare su quei tasti, sfiorarli, batterli. Sembrava che zappassero su quei rettangolini bianchi e neri. E la musica scorreva.
Mentre suonava, le sue labbra erano dischiuse in un misto di stupore o di adenoidi infiammate.
Ogni tanto si alzava dallo sgabello e faceva qualche passettino in sordina, poi batteva il piede e gesticolava un attimo, schioccava le dita e iniziava un accenno di danza, simile ad un orso in una fiera, mentre la sua band continuava a suonare.
Afferrava un motivo, poi si sedeva nuovamente al piano e improvvisava, girando attorno a quel motivo, quasi volesse spogliarlo. Le note uscivano pulite analoghe a faccette di cristalli scintillanti. Era con il suo corpo che faceva musica, il pianoforte era un tramite delle sue mani, delle sue membra. Gli chiesero che significato avesse quel suo danzare, e se mai l’avesse avuto, e lui rispose: – Dopo un po’ mi stanco di stare seduto.
Lo vedevi al piano con occhiali scuri e il basco calato in testa che alternava a secondo dell’umore o con un cappello da contadino o un colbacco peloso, che calzava con indifferenza, variandolo di volta in volta, mentre i piedi continuavano a battere sul pavimento, a segnare il tempo, e la sua musica scivolava via come su di un tappeto volante.
Più volte una nota la esaminava concentrato, quasi che da quel suono dovesse uscire qualcosa di più concreto. La precisione era il suo modo per penetrare nel brano che suonava, mentre le note si rincorrevano su quella tastiera che mal sopportava i colpi delle sue mani, dei suoi gomiti. Gli chiesero: – Ehi, Monk, che ne dici degli ottantotto tasti del pianoforte, sono troppi o troppo pochi? Rispondeva con un mugugno tra schizzi di saliva. – È già dura cosi!
Ma lui stava su quei tasti con colpi da fabbro ferraio. Le sue dita erano pesanti come martelli. A volte li picchiettava con attimi di sospensione, quasi provasse il pudore di accarezzare un corpo femminile, poi riprendeva con un ritmo che gli giungeva da un altrove sconosciuto. E la musica si impossessava di lui.
In sala di registrazione la trascriveva su un piccolo quaderno che metteva nella tasca del cappotto a fine audizione. Teneva la musica nascosta, non voleva che altri gliela portassero via. Non amava uscire di casa, suonava il piano aggredendolo da tutte le parti. Gli chiesero spiegazioni di come usasse la tastiera, rispose. – Come viene, viene. C’era sempre chi diceva che non riusciva a suonare le sue cose, ma poi scoprivano di farcela. Una sera, a cena, stette in silenzio per tutta la sera intento a sbucciare una arancia. Guardando il ricciolo che si svolgeva, stupito disse: – Ah, le forme!
Suonava quando ne aveva voglia, e l’ultimo periodo della sua vita lo trascorse al chiuso, tra le pareti di casa. Non toccava più il piano, passava le giornate in una accidia completa, e a volte le trascorreva a letto. Era come se la sua testa avesse preso una pausa, chiuso nel labirinto di se stesso. Di lui ci rimane la sua musica. La grande musica.
Grazie per essere esistito, Thelonious Monk!
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