Ricordavo la mia infanzia, piena di sole e di strumenti a corda ed ero così pieno di emozioni che le cordicelle di simil pelle, seguivano il loro percorso senza un ordine prestabilito.
Nel pomeriggio, impegnavano, invece, gli studi di meccanica; cominciavo a costruire modellini di piroscafi a vapore e, con accuratezza di dettagli, grammofoni a tromba. Tutto ciò che richiedeva una forza motrice, attirava la mia curiosità. Con i proventi del mio primo lavoro, compravo due oggetti molto utili, il trasformatore idrolitico, per misurare la densità dell'acqua, e un'assicella d'equilibrio. Poco alla volta, comperavo altri strumenti e arnesi, fino a quando non decisi di mettere allo scoperto le mie qualità, andando di persona nelle case, a regolare i contatori dell'acqua; era un lavoro molto semplice e gradevole.
Con le mie sole forze, costruivo una caldaia per la fusione del ferro e del bronzo e mi accorgevo di avere molti aquirenti, perché i lavori in ferro battuto erano richiestissimi. Lasciavo il primo lavoro, per dedicarmi, esclusivamente al secondo. Nasceva in Messina, la prima officina meccanica dei fratelli Iannello che, in realtà erano soltanto i miei collaboratori... Ma i miei figli non seppero mai.
Quello in cui scelsi di avere dei collaboratori, fu quello della mia “gioventù” e del mio amore pluviale. Ti pensavo mia adorata Pina e pensavo tanto anche ai bambini che ancora dovevano nascere. Sapessi quante volte, nel cuore della notte, mi sembrava di sentire il tuo respiro. Allora mi alzavo; sollevavo le tendine... Vedevo un fiocco di luce posarsi sul letto ed ero felice.
Sovente, ti parlavo: sapessi, amore mio, quante soddisfazioni mi dà il mio nuovo lavoro... Ma sarò sempre riconoscente, a quanti mi hanno aiutato, quando ero in una situazione di difficoltà estrema, Donna Silvia, Ettore, i fratelli Giacalone.
Mia dolce Pina, avrei voluto scrivere il racconto di tutte le mie vicissitudini... Ma, poiché mi sento all'inizio e non alla fine della vita, ho deciso di scrivere un diario, come Tu, sempre mi suggerivi.
Amore, ora che sono realizzato, dimmi soltanto se potrò venire...
Non c'era che un silenzio indefinibile.
Sentivo sulla pelle un alito... Il tuo bacio che era un segno di assenso ed ancora, un brusio. Era come volessi dirmi: ricordati di fare una preghiera a Santa Rita e accendile una candela.
L'indomani, mi recavo in Chiesa e, inginocchiato, dinnanzi alla Santa, le dicevo: “Santa degli inguaribili, aiutami nel percorso; fa' ch'io trovi la strada...”
Avevo terminato l'orazione, ed ero sulla soglia della Chiesa, quando mi accorsi che qualunque oggetto toccassi, era come trasudasse e diventava opalescente... Mi allontanai esterrefatto.
Per strada, vidi una colomba tubare, vicino ad una pozzanghera. Mi avvicinavo e dentro l'acqua vidi
una casetta, attorniata da una scala e sulla scala, una fanciulla con un grembiule fiorito; ebbi un sobbalzo; nessuna cosa, mi era sembrata, all'uscita, più nitida di quel che vedevo in una goccia d'acqua.
Avrei voluto chiamarla la mia sposa, ma per non rompere l'incanto, non lo feci... Dopo pochi secondi, tutto ritornava alla normalità.
Dolce sposa, facevo ritorno a casa... felice... con la certezza di doverti cercare. Prima però, scrivevo
alcune pagine di diario per persuadermi che non era stato un sogno... Erano accadute delle cose inspiegabili, ma tutte vere.
Pensavo sempre a Te, mio dolce Amore. Posso, dunque venire?
Cinque volte guardai l'acciottolato, cinque volte, mi rispose un ticchettio. Era come volessi dirmi: non senti i battiti del mio cuore?
Amore, verrò presto... e, quando sarò giunto a Catanzaro, risalirò la china, per darti un bacio, come alla bambina.
Mi ricordo di un giorno... avevi le scarpine rosa argento e mi porgevi la manina, dicendo: “Andiamo, mister, mi portate al concerto?” Guardavo i tuoi capelli sul raso della veste e gli occhi, così belli, nel pallido incarnato. Vi avrei posato un bacio e te lo diedi, quando venisti più vicino, per sussurrami all'orecchio qualcosa che riguardava nonno Modesto; avresti voluto presentarmelo, ma un po' di timidezza te lo impediva. Ti accarezzai le guance; leggesti nel mio cuore, perché con due parole, andavo in visibilio: “Vi voglio bene, mister.”
Allora, fui io a spronarti: “Quanto vuoi bene, ti dicevo al nonno Modesto?”
Rispondevi: “Tanto... perché mi insegna a volervi bene e sopratutto, perché mi ha dato per voi l'appellativo che più mi piace.” Egli sorride e si commuove, tutte le volte che ci vede insieme. Ti avrei abbracciata ancora, ma entrarono i tuoi cuginetti per l'ora di lezione.
* Continua *
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