Scritto da © ferdigiordano - Mer, 31/07/2013 - 12:34
Quest'isola mostra il seminato dal fuoco
venuto a galla con troppe arterie, già sbrecciate.
Del vulcano originario la bocca è un corollario
turistico che giace sulla placca mastodontica.
Ocra i blocchi. Mancamenti alle feritoie. E’ il cuore secondo,
squadrato in cave non più alte di te, scarnificato
come ogni cosa sbocci incline a vendersi.
Blocchi precisi gialli luminosi esposti in camere
che mai saranno miei e tue, insieme
dico: la gioia alcolica della marina: qui tutto si butta in mare
soprattutto giovani nomadi sguaiati
che pare abbiano avuto natali in contumacia
sicchè neon e filamenti sequestrano i loro bagliori
dai corpi di birra e sangue crudo.
Notte e giorno durano niente per la stessa durezza
delle spose di pietra.
Mi chiedo quale Ggantija possa parlare
di te a Malta e perché, data la fragilità di questo silenzio,
un formicolio di luci fatue sul mar monero
rende le navi presunte verticali inermi. Su di loro
questo soffitto di afa moltiplica gli oppressi;
per il cielo, impedisce avamposti astrali risoluti, ma tu,
carlinga di pelle - per quanto terragno io sia -, rifiuti
il convoglio aereo, il mio volo segreto:
si regge sull'acqua la parola con promessa.
Quasi ti abbandono prima del tempo
per cammini a vela, ma né il mediterraneo nè l'africa
rinforzano il vento - più levante che altro -
sul viso, svoltato l'angolo, e, oh!, cambia lato
nel luogo in cui fila una vela, fila se la penso
sulle nostre gambe. Lento e stordito
il mare segugio fiuta l’oppio della preda. Padre
mosso e madre frastagliata, continuamente
ti sento nella bocca con la tua lingua cui somiglio.
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