Scritto da © Mariella Soldo-... - Dom, 24/01/2010 - 16:30
Antonella Taravella e la sua poesia di “ruggine e miele”
“Vertigini scomposte” (Edizioni Smasher, 2009) è la seconda silloge di Antonella Tavarella, dopo l’esordio con “Gravida è la notte” (Lulù, 2008).
Avere fra le mani questa raccolta è come sentirsi rannicchiati all'interno di una parentesi quadra, sì, perché è proprio questa la prima caratteristica che salta all’occhio sfogliandone le pagine: i titoli dei versi sono tutti racchiusi fra parentesi quadre. Un modo per dire che la poesia è una pausa nello sporco del quotidiano o della propria anima?
Le atmosfere che circondano le poesie della Taravella sono spesso cupe, malinconiche, fredde. La scrittura si perde in lande desolate e nebbiose, prive della presenza fastidiosa degli umani. Le frasi sono una fuga verso gli anfratti del reale, verso un universo che poggia inconsapevole sul pericolo di un’imminente vertigine: “l’ombra mi freme/in collassi di nuvole” (p.55).
Il mondo che abita questi versi è spesso “friabile”, sempre in decomposizione, come la lingua che la poetessa utilizza, “screpolata parola”, parti del corpo, “[…]labbra/ sbavano memorie/frantumate d’inverno” (p.20) o ancora “scalfire nelle notti salate/la friabile dentatura” (p.17).
I sentimenti sono spesso difficili, contornati sempre di un alone di dolore e sofferenza, anche quando essi raggiungono l’apice della loro bellezza, come durante un atto d’amore, quasi sempre mescolato a un insano masochismo: “perché la passione…/è un cucchiaio nell’impasto/da trangugiare a morsi sottili” (p.53). Così la carne diventa un terreno di graffi, dominata dal dolore fisico: “graffiata da un bacio” (p.40), “Sui graffi che la cute delle sue mani non tenevano” (p.40); e quel dolore, come per una strana alchimia, si tramuta in dolce miele: “ci si chiede cosa sia l’amore/rispondersi che è groviglio/dispersione d’anime/ricciolo d’api da baciare sulle punte/per poi rimanere punti/ed essere invasi dal miele doloso” (p.78).
In questa calda oscurità e continuo sgretolarsi, l’unica fonte di luce sembra proprio la scrittura, che aleggia e volteggia nelle sue infinite possibilità. La Taravella sfida questi voli e si rifugia, timida, nel suo tempio di parole: “E alla fine ci si domanda/se la notte sa avanzare bocconi/da donare a chi è povero di cuore/senza realmente sapersi nell’accadere” (p.91).
Avere fra le mani questa raccolta è come sentirsi rannicchiati all'interno di una parentesi quadra, sì, perché è proprio questa la prima caratteristica che salta all’occhio sfogliandone le pagine: i titoli dei versi sono tutti racchiusi fra parentesi quadre. Un modo per dire che la poesia è una pausa nello sporco del quotidiano o della propria anima?
Le atmosfere che circondano le poesie della Taravella sono spesso cupe, malinconiche, fredde. La scrittura si perde in lande desolate e nebbiose, prive della presenza fastidiosa degli umani. Le frasi sono una fuga verso gli anfratti del reale, verso un universo che poggia inconsapevole sul pericolo di un’imminente vertigine: “l’ombra mi freme/in collassi di nuvole” (p.55).
Il mondo che abita questi versi è spesso “friabile”, sempre in decomposizione, come la lingua che la poetessa utilizza, “screpolata parola”, parti del corpo, “[…]labbra/ sbavano memorie/frantumate d’inverno” (p.20) o ancora “scalfire nelle notti salate/la friabile dentatura” (p.17).
I sentimenti sono spesso difficili, contornati sempre di un alone di dolore e sofferenza, anche quando essi raggiungono l’apice della loro bellezza, come durante un atto d’amore, quasi sempre mescolato a un insano masochismo: “perché la passione…/è un cucchiaio nell’impasto/da trangugiare a morsi sottili” (p.53). Così la carne diventa un terreno di graffi, dominata dal dolore fisico: “graffiata da un bacio” (p.40), “Sui graffi che la cute delle sue mani non tenevano” (p.40); e quel dolore, come per una strana alchimia, si tramuta in dolce miele: “ci si chiede cosa sia l’amore/rispondersi che è groviglio/dispersione d’anime/ricciolo d’api da baciare sulle punte/per poi rimanere punti/ed essere invasi dal miele doloso” (p.78).
In questa calda oscurità e continuo sgretolarsi, l’unica fonte di luce sembra proprio la scrittura, che aleggia e volteggia nelle sue infinite possibilità. La Taravella sfida questi voli e si rifugia, timida, nel suo tempio di parole: “E alla fine ci si domanda/se la notte sa avanzare bocconi/da donare a chi è povero di cuore/senza realmente sapersi nell’accadere” (p.91).
Mariella Soldo
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