Esco. Come un flusso di coscienza il traffico mi assorbe e mi travolge. Forse sarà per via della velocità, o per la distanza mal calcolata, o vuoi per la tensione nervosa, ma è sufficiente lo spazio di un pugno, e nell’arco della manovra le due auto si sfiorano toccandosi (buon compleanno, vecchio mio; specchio rotto uguale sette anni di guai).
Una sensazione approssimativa la fretta, personale.
Appunto.
Dopotutto, si è sempre lì a sgranare minuti a sputarli fuori come semi d’anguria. Purtroppo, mai un attimo di calma, neppure un tratto di abbandono, un lento arrendersi al nulla. Così, la mattina è davvero iniziata bene. Un dialogo breve e civile (brutto stronzo: se ti tenevi più a destra, non ci urtavamo!), un numero di telefono e un chiamerò.
E via, in cerca di una breccia, di un miraggio, di un affannoso parcheggio. Lo vedo, l’abbraccio, è lui: il parchimetro. Dopo aver ingoiato le monetine e averle digerite, tira fuori la sua lingua bianca, sporca di segni. E poi via. Isolato dopo isolato. Un gioco dell’oca tra i quartieri di questa cartesiana città (la sua pianta, un vero e proprio quaderno a quadretti!).
Mi si sfarina qualcosa in bocca, è la cuspide del molare superiore. Pure questa ci voleva! È ora d’andare. Occorre sbrigarsi. Davvero, queste incombenze le devo proprio soddisfare.
Guizzo veloce tra le facciate dei palazzi che riflettono spicchi di cielo, e i colori dell’inverno, infreddoliti e pallidi, come le foglie cadute a terra.
Dappertutto, nelle vie, sotto i portici, nei bagni pubblici, le persone camminano con il naso rivolto alle vetrine, che scintillano come scrigni. Natale è alle porte. La città è rivestita di luci. La stella cometa è una luminaria d’artista, un evento, un’installazione.
Ecco, scavalco due cani che, arrapati, premono sui guinzagli, puntandosi. Un trillo soffocato sale dai miei abiti. Appoggio la saponetta con contro l’orecchio. Il sole sfiora le mie palpebre. Una vibrazione gutturale si trasmette dal timpano al martello, dall’incudine alla staffa. Passano alcuni minuti, il braccio duole. Termino la conversazione con la mano destra anchilosata e l’orecchio che è tutto un bollore. Guardo in alto.
Un passante maldestro mi urta. Sorrido, è Natale, perbacco! Siccome sono solo e felice, nulla mi importa di ciò che accade intorno. Cammino sulle acque (nuovamente una maledetta pozzanghera - le tubature rotte -, questa città è uno schifo!), certo che sarà la gravità del domani a ricondurmi alle angosce del quotidiano.
Magari, poi, tutto passerà.
- Blog di Rinaldo Ambrosia
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