Ci ritrovammo, in un attimo, in quel paese che era stato l'obbiettivo della nostra meta... Era circondato dai monti e si offriva alla vista, nella visuale di una innaturale impotenza. Per strada non si vedeva nessuno, ma nemmeno, dietro le imposte delle case... scarse, con rari balconi, finestre con fitti tendaggi. Un ambiente soffocato dal rigore della privacy, così mi apparve.
Ci guardammo desolate... Non l'ombra di un passante... Ed era mezzodì.... La mamma ci diceva: “È quasi mezzodì... Non c'è nessuno... Nemmeno una cremeria e... pensare, che siamo proprio alle porte di Cremona...” Si era delusi... e quasi pentiti... Denise farfugliò qualcosa, come per dire ve l'avevo detto...
Nei nostri cuori, una domanda sola: come faremo? Chi ci darà ragguagli?
La mamma cominciava a manifestare le proprie perplessità:
.“Non mi sarò sbagliata? E' stato un sogno? Eppure, a quella ostessa, io ho parlato... Le ho dato anche un acconto...”
“Mamma” le dicevo, con uno slancio, inconsueto: “Invero, tu ci hai detto di Gertrude, la proprietaria dell'agriturismo... Se è stato un sogno, sostanzialmente, è tutto vero... Però perdona la curiosità: dove hai incontrato quella donna?” Rispose: “Al bar, proprio di fronte casa.”
“Mamma, è una gelateria...” Ma queste cose, le dissi tra me.
Capii che ti proiettavi sia nel passato, che nel divenire. La signora Gertrude era un'ostessa, ma proprietaria di un agriturismo. E la gelateria di cui parlavi, cedeva il posto, a un nome americano.
Quanto alla zia Evelina, ero sicura della sua identità. La incontravo in cortile, in quella casa che era stata di papà; all'uscita di scuola, ed una volta, persino in ospedale, nel reparto gestanti di un ospedale di Messina.”
Madre, fu per la prima volta che ti vidi nel tuo essere donna... Tu, che solevi sdrammatizzare le pene, dei nostri anni giovanili, e ci dicevi: “Chi non dorme, non vede”, ora cedevi il posto alla bambina che era in te. Così ti vidi...
Denise con falsa indifferenza, stava davanti alla panchina sulla quale eri seduta. Ero al tuo lato, ma quasi di spalle e ti guardavo: prendevi dalla borsa la coroncina di colore avorio, che non avevi avuto mai la forza di usare; stringevi tra le mani il primo grano... Era come dicessi: ”Signore... Forse ho sbagliato.... Ed ho ho due figlie... Aiutami... Sento defluire il sangue nelle vene, ed ho paura di guardar la Croce.
Non ho parenti, amici... Non un luogo che mi appartenga... Ma quella Zia la sento... Io le ho parlato.”
Mi avvicinai, ma prima di sedermi, le dissi: “Stai tranquilla...” Le stesse parole che lei soleva dirmi sul divano, nelle sere d'estate, dense di malinconia. Era sempre presente la tragedia, che ci aveva colpito due volte: quella di nostro padre; e quella dei nonni.
“Mamma, ti prego, non aver paura...” Io la guardavo... E mi sembrò perduta.
Denise alzò la voce: “Non ce la faccio più; dove eri, sorellina? Sempre perduta, Sempre trasognata... E nostra madre rischia di non farcela più.”
Mi feci forza e dissi: “Se siam venute, non sarà per caso.” Volsi lo sguardo al cielo, come chi cerca la virtù smarrita, e la riporta tra finestre e logge. Finalmente, tra le imposte di una vecchia casa, ravvisai un'ombra... E a quella, senza pensare, mi raccomandai. Era un signore, in maniche di camicia; gli feci un cenno... Immediatamente vidi quell'uomo, abbassarsi e chiudere le imposte... La mia mortificazione fu tale, che mi dissi aspramente: “Nilla, non cambi mai... Sempre a invocar qualcuno... Non ne parliamo più, ma prometti di non svelare più le tue emozioni; oltre la mamma, non ci sarà nessuno in grado di ascoltarti.”
Con questa amara consapevolezza, già mi vedevo sulla strada di ritorno, con la mamma riabilitata, e noi sorelle in pace... Quando sentii una voce: ”Signorina... È stata Lei, a far cenno con la mano?”
Rispose solamente: “Chiedo perdono.” Si volse a nostra madre che era di spalle, andandole vicino: “Signora, posso esservi di aiuto?” La mamma nel vederlo, restò trasecolata... Quell'uomo era l'immagine invecchiata, di nostro padre.
“Mi scusi, è un altro abbaglio? Non so se sono in me.”
“Signora, mi presento: sono Alejandro Merez, Ernesto per l'Italia. Sua figlia ha fatto un cenno... Io chiusi le persiane perché non son di qui, e nel paese, si dice ch'io corteggi le ragazze, facendo l'occhiolino da quel bagno che, vede... È diroccato... Lo adeguo ad altri scopi, ma c'è chi mi fraintende.”
La mamma, finalmente, emise un bel respiro... “Deo gratias” disse, “l'ha mandata il Cielo per la preghiera di questa mia figlia, e, accostandoci l'una all'altra, ci presentava.”
“Non siete sole; venite. Edvige vi aspetta.”
Non guardammo quel volto incuriosite, come qualche altra volta era accaduto; Denise ed io adesso sapevamo di non aver sognato... Quell'uomo somigliava a nostro padre... Nei suoi occhi traspariva un che di pianto e una dolcezza antica, ma a differenza, del nostro genitore, non sembrava avere un incarnato etereo...
“Vi faccio strada.”
Rispondevo, un poco risentita: “Se prima lei si è offeso, perché è venuto...”
Percorremmo una lunga scalinata... non più sgomente; ci giungeva il vento di una salubre familiarità; e sulla soglia apparve, finalmente, alta, solenne nella sua mantiglia, Edvige Tosca, l'impaziente sorella di papà.
“Deo gratias, Maria... Il viaggio è andato bene?”
“Ti ho scritto tante volte...” Un lungo abbraccio, ci avvolse.
Edvige, prendeva le nostre borse per riporle nell'armadio, appendiabiti...
Denise, con lo sguardo, mi stava dicendo qualcosa:”...
“Dionilla, guarda sulla lunetta dell'armadio... Non c'è tra gli intarsi quel fiorellino azzurro, che era fra le cose più care di papà?”
“Denise, è vero...” Le dicevo, stringendole la mano... E' proprio quello che appare nello stemma gentilizio. Evige ed Alejandro, ritennero doveroso, presentandosi, a noi fanciulle: “Siamo gli zii, i fratelli gemelli del vostro genitore.”
Così, come se mai ci fosse stata distanza alcuna, tra i pensieri propri e quelli della nobile parente, mamma le disse: “Edwige te lo voglio dire... Mi sono così demoralizzata, da sudare... E non so più da dove cominciare...” Alejandro intanto, si premurava a darci il benvenuto, secondo quel costume che non smentiva le sue origini. “Siamo greco-ortodossi,” ci diceva, rivolto a nostra madre, “vogliate accettare i nostri omaggi.” E poiché non capivamo, ci spiegava: “L'esigenza del cuore, non son quelle del corpo.” Qualora, vi occorresse, abbiamo anche un bagnetto. Dopo, aver dato ristoro alle nostre membra, nostra madre, parlava ad Edvige:
“Cara, conoscevo il tuo nome, so che ti chiami Edvige; ti penso e sento sempre... Ma non riesco a spiegarmi il motivo del viaggio.”
- Blog di Giuseppina Iannello
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