Come neve d'estate
(Frammento di cronaca minuta)
"Am ciém Enzo e a ò ziré par quarant'àn sé pùlman so e zò par al strèdi d'là Rumàgna, parché questa, enca sa gnì càrdiì, là é tèra rumagnola…j à voja à dì quei chi stà lasò..i caporioni!!
Adèss a so in pénsion, ma quand cà sèra un po pio zòvan à faseva i biglièt sòra là S.I.T.A. e ad zénta annò vesta e cnòsuda un treno…Sa ò dal stori da racuntè? O l'oscìa!!! Sè! Aspètì un atùm.., sé..questa! Ma préma a ò da riempìm è bicìr…
Amarcòrd…mi ricordo…"
La S.I.T.A. aveva, da qualche minuto, lasciato il mare dietro di se, con una nuvola di fumo grigio e maleodorante avanzava sulla strada che costeggia il fiume sulla destra idrografica; tra grattate e cambiate a "doppietta" attraversava paesi, allora ancora radi, ma che si susseguivano senza sosta uno dopo l'altro. Ad ogni borgo, ad ogni incrocio una fermata; uomini che salivano e altri che scendevano in un andirivieni di folcloristici personaggi, di odori forti della terra e di animali al seguito.
Giorno dopo giorno tutti i giorni uguali. Le stesse facce consunte dal sole e dalla fatica di un lavoro duro su terre dure; doveva essere stato giorno di "magra" al mercato a Rimini per le galline e le uova invendute che, mestamente, le donne riportavano indietro, pensando ora, a come pagare la settimana dal fornaio o come comperare un "ranno" di sapone; ma poco importa. Ogni giorno era uguale a quello precedente, solo il caldo sembrava essere più "tignoso" e opprimente in quel mese di luglio. L' apertura dei finestrini non agevolava il ricambio dell'aria, ma dava solo un'effimera sensazione di freschezza dovuta, più che altro, al movimento dell'autobus e, l'aver sbottonato la prima asola della camicia non mi evitava la macchia di sudore sul colletto; cosa, d'altronde, di nessun imbarazzo in un contesto così popolare e famigliare del mio lavoro. Sorreggendomi alle spalliere dei sedili, avanzavo lentamente tra un biglietto e una chiacchiera verso il fondo della corriera; conversazioni di vita quotidiana mi accompagnavano ad ogni passo, spaziando dalla "disgraziata" legge Merlin con i più smaliziati, all'ultima impresa di Coppi, ai comunisti che vanno nello spazio e non trovano Dio e di quelli, invece, che restano sulla terra e mangiano i bambini, alla figlia di Omero andata in sposa al carabiniere di Novafeltria ed ora giù in Aspromonte…ma felice.
In questo mio intrattenermi, in quelle che oggi verrebbero chiamate pubbliche relazioni, mi ero dimenticato di quella bella ragazza vista salire alla stazione degli autobus di Rimini; i folti capelli neri e il portamento fiero unito ad un vestitino chiaro di organzina avevano attirato la mia attenzione di indomito galletto, per poi, venir "distratto" dalle necessità di servizio. Così, come ridestato dal torpore della calura, alzai lo sguardo per cercarla tra i sedili, la trovai quasi nascosta dietro uno schienale in fondo al corridoio, proprio prima della porta posteriore. Aveva la testa abbandonata su un finestrino reso opaco dalle troppe ditate, e due occhi umidi e brillanti fissi nello spazio, oltre i profili ispidi e frastagliati della Valmarecchia…Lontano, come è lo sguardo del "Dante" disteso, perso nel vuoto a cercar tra le stelle la sua Beatrice.
La luce entrava accecante e, il contrasto violento con le parti non illuminate, creava sciabolate roteanti che non aiutavano l'occhio ad abituarsi; cosi, mentre mi avvicinavo a lei cercavo di osservarla il più attentamente possibile, provando a darle un'età, impresa non facile per i lineamenti resi precocemente maturi dalla vita ancora dura di allora. Le arrivai di fianco pronto a farle il biglietto e pensando ad una frase ad effetto che non fosse la solita banalità, quando mi accorsi che in grembo portava un "frugolino" avvolto appena in una copertina multicolore, di quelle fatte all'uncinetto nelle lunghe sere d'inverno. Accarezzava ripetutamente un piccolo mare di riccioli neri, così fitti e tondi che potevano avvolgere un dito, sopra ad un visino paffuto come è la luna in certe sere d'estate. Mi avvicinai ulteriormente per curiosità e fare il dovuto complimento di circostanza, una manina si agitava roteando nell'aria come a voler prendere, per gioco, la nuvola dei sogni. Mi chiesi, allora, come sia stato possibile non averlo visto prima? Di quanta limitata lungimiranza è dotato il genere umano per vedere solo quello che vuol vedere?
La madre si volse verso di me con un lieve ma distaccato sorriso e prima che le conferissi parola mi sussurrò il nome: “Giovanni”. Quanto orgoglio in quella parola pronunciata con infinita e spirituale dolcezza, quasi una trasposizione nel vero di quelle Annunciazioni dei grandi maestri del Rinascimento; dove si fondono solenni sacralità a profane debolezze, dove i sentimenti feriti di una gioventù troppo presto passata, lasciano un segno nelle profondità di due occhi immensi. Una lotta tra gioie e tormenti, in un pathos di infinita poesia nella quale ognuno di noi, nella sua vita, compone la rima.
Il biglietto, ricordo, fu di sola andata per Mulino, ma la ragazza non mi era sembrata molto sicura del posto dove scendere; per lei doveva essere la prima volta su queste strade, forse una fermata valeva l'altra o, forse, era così importante non sbagliare che l'essere indecisi denotava una determinazione fuori dal comune.
Con questi pensieri la guardai scendere per sparire, successivamente, dietro la curva.
Mé, à so "gardèla" (im cièma tot acsè parchè um pìs magnè) e fiol d'Omero e la mi suréla l'è andeda sposa sa un carabinir.. Amarcord che dé parché a sèra andè a è Mulèn c'àveva da cumprè una vaca da e fiol de por Mingòn, a sèra scalè zo da la curira cun clà burdéla, e tot du à sèm antrè intl'ostàrì dri la curva.
Avevo chiesto un bicchiere di vino di quello buono, mentre adocchiavo, nell'attesa, il tavolo al quale sedermi per mangiare la mia coppa con il pane comprato a Ponte Messa. Mi aveva servito una donna piccola di statura, già avanti con gli anni, con ancora i capelli sale e pepe raccolti dietro una testa dritta e austera. Il vestito nero e un grosso mazzo di chiavi legato alla cintola, le conferivano un'autorità non comune, comunque tipica di certe donne della nostra terra, abituate dalla miseria e dalla guerra da pochi anni passata, a gestire una prole numerosa senza il marito, sepolto, da un'esplosione di grisou, al decimo livello della miniera di Perticara.
Il chianti era buono e corposo, ma non mi annebbiò i sensi; dopo qualche minuto sentii la sua stridula voce accendersi animatamente in un'altra stanza, non capii le parole ma percepii l'aggressività della fiera che difende la tana e le "marachelle" dei suoi cuccioli. Dall'altra parte i singhiozzi strozzati di una ragazza per una giustizia che le stava scivolando via, sul pianto dirotto e forse affamato di un bambino tenuto in braccio.
Vent'anni sono pochi per capire che i sogni finiscono prima dell'alba. Un risveglio amaro per un peccato che peccato non era, se non quello di essersi sentiti grandi troppo presto…, lasciando, in disparte, le bambole di pezza.
Ritornò da dove era venuta, sentendo sulla pelle bianca e sudata la sferzata gelida della neve d'estate. Si ritrovò sulla stessa corriera col suo bambino, assieme ad altri mille volti sconosciuti tra valigie di cartone, sogni e lacrime…come le sue.
L'esodo era cominciato e pareva senza fine. Come processionarie in fila indiana verso il nuovo Eldorado delle otto ore in fabbrica e dell' agognato benessere; la gente lasciò la propria terra in balia dell'incuria, la propria storia in balia dei rovi che tutto nasconde, per lasciare che la cornacchia diventi padrona dell'ultima pietra d'angolo della torre più alta, mentre in basso, nella valle, scorre l'acqua dolce del fiume che alla foce porta i ricordi raccolti, per confonderli con mille altri in un mare sempre troppo salato.
Restammo in pochi a sentire il lamento del vento mentre pettina il muschio sui sassi del Marecchia; il sole calò rapidamente dietro i monti, per una notte senza alba…Perché all'indomani il sole sorse altrove.
…cosa capirà mai, di tutto questo, un viandante distratto…?
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