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Il verso della credenza

 
1 - 2 - 3
 

Lui sta lì disteso per dare peso ad una sedia. Su di lui
navigano minuti con barche inadeguate. Poggia
ad un’altra le toppe delle calze. Senza i piedi
il pavimento gli passa di fianco. La sabbia

va nella stanza dove un vento mai esausto
cambia il tempo più col suono che dai segni.
I segni sono dubbi: credere è infinito non imperativo.
E’ ancora oggi, domani
 

com’è sul calendario? C’è più di un santo, parrebbe festa.
Niente di suo, beninteso, ma buoni per la camicia,
la mutanda candida, il sugo con la carne. Forse pioverà
e non si potrà fare nulla che non sia già. Così aspetta
per sapere dove porta la vita, senz’affanno.
Domani c’è più vita solida che un culo da sedere.
Si andrebbe all’altare se fosse casa. Si andrebbe,

si andrebbe, se fosse solo domani.
 

Ora - e solo ora - s’accorge che il mare avanza.
Crede di capire i pesci e il peso che li circonda; lui
sulla sedia affonda, loro s’adunano a branchi. Gli uomini
- tutti gli uomini - quando, e se, crescono, maturano soli.
Vorrebbe un bacio e lo cerca. Non cade
per non vedersi intorno stanco e non si muove.
Ama il silenzio e va di qui o di là.
Stando alla vita, vive di suo domani.

 

4 - 5 - 6

 
Spesso gli occhi sono corti. Non sempre, ma dipendono
dalle mani. Lui sa che non vede lontano: capisce
che può immaginarlo. Sente, questo sì, e deve dormire
per andare a fondo. Vede in giro l’occorrente: il letto
inesauribile, la noia, la solitudine della stanza, rimanere.
Vorrebbe lasciarsi andare nella vena della penombra, la resa
prima della porta, per quel male del gioco che fa dire
perché non farlo e si facesse il sonno.
 

Quindi, lui, il suo occhio, lo inaugura sul posto, poi lo spinge
oltre: lo troverà di fuori, già prima che vi si rechi. Direbbe
che tocca ogni cosa per sentirla sua. Usa le dita per credere
che sia vera: non le sue, quelle degli altri,
in tal modo tutti toccano ciò che per lui è bello.
Per questo guarda ovunque, insegue una idea del
sorriso esemplare e tocca i suoi denti;
esplora i morsi non dati: li avverte.

 

Intanto parla in giro agli assenti, origlia la risposta del silenzio,
incespica per la soglia alta dell’attesa; gli occhi che ancora
toccano più delle labbra quel posto che non è in lei.
Lei: cosa dirle ancora mentre non c’è? Basta una frase corta
come: ti attendevo, ora siedi. Ma ha certezza che non funzioni
se è sveglio. Occorrono mani diverse con l’abitudine
ad essere altrove, ad essere faro o in cammino.
Non lontano, al buio.

 

7 - 8 - 9

 

Adesso costruisce la memoria come un palco
o giù di lì. Era onesto il dito indice, una direzione di nodi
da sciogliere, un vento tremendo dalla mano del padre.
Ora è una parola con piccole ossa tra le tempie. Un suono
in cui il suo universo intero si presenta: sembra,
da qui, una divinità obesa con gambe molli che lo viaggiano
- chissà per dove, da chissà cosa - portando lui
con quella faccia piena di satelliti, di domande esposte.

 

Direbbe che c’è ancora il padre, ma non lo vede. Si tiene alla larga
dall’approfondire perché gli orbiti nelle cellule. Avanza
poco: si muove col suo peso; e via così, la leva delle gambe

esprime la forza del passato che lo spinge. Lui sa come accade.
Tutto gira sulle assi del cosmo ed il suo asse regge
le mele dei pianeti e le arance della luce. Ora vara
la sua ombra come un battello, ci vorrebbe un padre
quando le corde dalla gola passano per comete.
 

Lo vedi che somma meteore insonni e le tramuta in fatti
desiderati, poi: un qualche seme foglia la decisione
e una speranza sembra treno come salire o scendere
senza fissa dimora, a sottrazione dall’esserci stato
o il ritornare. Magari a quella carne da cui proviene,
magari al ventre del mare che lo affronta. È lì che osserva

il curriculum dei morti nelle creste che li svegliano
perché chiamati a gran voce da vivi.
 
10 - 11 - 12
 

Ora lui dovrà uscire, muoversi al limite, inalberare lo sguardo
a misura di  naso: la gente, il loro fiuto, la certezza
nel capire quando è giorno. Farà caldo per tutti, pensa.
Potranno stare nudi dalla cintola in su
quegli altri che dai seni stillano gli usi
del piacere quando è più di un bacio. Pensa che il giorno
si fa dai seni, come quando il sole è il capezzolo
del cielo e si allattano le terrazze di luce.

 

E’ il momento. Gira un vento senza regole
già in cucina. Aria fresca, da nordovest;
quasi soffio. Arriva nel caffè, lo rende passeggero

più che altro rovesciandosi dalla credenza. E’ un profumo
e gli precipita in volto. Sbatte la porta
con la fretta di andar via, quindi avvolge le suppellettili
senza toccarle, imbocca lo spazio e provoca
manfrine alle tende.
 

Eccolo il refolo come serve. Analogo alla sorpresa

nel battito delle palpebre: sposta dai passi tutta l’estate, la stasi
delle secche rughe di noia o una leggera pioggia
sulle scarpe, sulle spalle, sulle efelidi - che sono giuste sulla pelle:
giuste come ninfee sul dorso dell’acqua quieta.
Lui è uscito finalmente dall’equivoco della sosta:
cammina e si ribella alla morte. Le copre la bussola
e respira ancora.
 

13 - 14 – 15

 

Cerca per qualche istante di aderire all’aria
traspare dalla gente, si spande nei passi
come fanno in planata i grandi alati
sorretti da un piglio di correnti
sulle cupole ferme e sui gesti da passeggio.
Fuori dalla sua sedia, oltre la caverna del monitor,
girano le consorterie di tutte le follie disciplinate
dalla strada, regolate da segnali espliciti, irridenti.

 

Avverte il dubbio di ogni luogo in ombra:
adeguarsi alla prospettiva col volume misterioso dei fuochi
o lasciare che la luce sveli il ricatto delle crepe.
Al giorno chiede quella chiarezza di respiro
che la camicia avanza al colletto aperto:
il petto - incavo disfatto -, un bottone
caduco, la peluria come libertà alla finestra.
Sta nei vestiti come ospite precario.

 
Ci sono donne in giro, alle quali non è avvezzo,
per ogni uomo colto ai tavoli dei bar.
Ogni minuto chiuso in numeri vaghi, l'orologio
dei posti o dei bicchieri, è un tesoro
di dialogo e promessa. Le labbra agli orli
senza più parole adatte. Persi nei desiderata degli alcoli
quasi scogli a questa riva del Tirreno. Tutti seduti
a fare gli orbi o tutti in piedi a cercare un flirt.
 
16 - 17 - 18
 

Alti, ineguagliati, steli di prato in piazza

è lì la gente. Steli e basta per i legni e i marmi.
Accovacciati, si temono come uragani inconsueti.
La gente è ignara perfino delle tiritele dei paralleli
che ad uno ad uno li spingono sui bus
della transumanza oltreterra. Di quelle stazioni
lui ha altre dimensioni: filiformi all’arrivo
strette ai gomiti nelle partenze.
 

Portano figure semplici nelle vite dipinte e alzano
dalle gambe i peana di gloria o di pena.
Sono comuni alle ombre, inutili ai gigli.
La gente è questa, la gente è un fulcro
che abbassa il ponte ai potenti purchè salvi la sedia.

E’ tutto ciò lì intorno come un profilo mosso dal vento
che alla fretta costa più di uno stordimento.
A volte, la gente, è ferma in piena parvenza.
 

La gente, qualsiasi gente, va da un punto all’altro
delle generazioni con quell’adeguarsi opportuno

alle date da rendere comuni i numeri: equità
di migrazioni senza volo. Un riposo di rotta.
Osservate le panche che hanno davanti ginocchia
conserte: quelle braccia, quei pensieri di resa,
sono il conto del loro mistero. La gente
non controlla dove nasce folla e si spegne deserto.
 
19 - 20 - 21
 
Sente l’orizzonte come una corda che traina battelli
ne semplifica i tragitti, li abborda con circospezione.
Ottiene dal mare un imbarco visionario, ma non si capacita
di come possa la costa dare vita alla madre. Sua madre
che non potè rendergli alcuna confidenza:
amava estrarre il timore con un dono, poi, col fiato,
impiantava la serenità nei polmoni. Quasi non l’offendeva
il suo solo tono di raso mentre il petto crollava
 
sotto il peso dell’aria. Le volta gli occhi per fermare le palpebre.
Se le avesse battute - sapeva - seppelliva quell’oro
nell’isola che dalle anime trae la sabbia del corpo
propiziando il fondo della memoria.
Sua madre, il miele introvabile, la cura inestinguibile,
persa nel corpo; potendo, lo accompagnava
all’alba con assoluta certezza della luce: era grazia e farina.
Era la noce di lievito inesausto, l’arca della crescita.
 
A quell’ora, da nordovest, il vento agita il mantello
al drago della sera: si liberano fiamme al tramonto. Sempre solo,
sempre il volto teso alla costa, la costa che non aggredisce il mare,
anzi, ne diventa porzione, un’onda immane, scura. La costa paga
di continuo la sua aliquota di frammenti alla risacca. Anch’egli
ora che lei ha su di lui uno sguardo, ora che quella visione nubile
compie il miracolo come meraviglia, ora, che sui nodi alle dita
già è manifesta la compressione della notte, sul fianco umido si posa.
 
22 - 23 - 24
 

Si alza, le gambe fuori dai momenti già trascorsi,
come mesi; il cuneo dell’attimo spinto dagli anni

da cui viene. Passa in rassegna ogni data, traina
il suo calendario con la stessa indolenza dei granchi.
Va di lato, con quell’ansia di trovare direzione
ruota il capo nella piazza, corollario
del paese; cerca il bandolo del futuro prossimo,
la riuscita che manifesti l’uomo.
 

Ma l’uomo non è che l’una e l’altra parte del muro di pelle: entra

dal corpo che perfora. Invaghisce l’aria di stupidi profumi,
la contamina di vuoti, la infetta col presagio della distruzione.
L’uomo è, in questo senso, il diluvio. Da un lato furia,
dall’altro neve. Si scioglie piano, per fortuna, prima si corica poi irrompe.
Verso le sei, è già nel panico da buio. Eppure a quell’ora
si formano le coppie in cammino. Quelle che
vanno pari pari ai quasi figli o al completo orrore.
 

Quindi lui, in piedi, avverte com’è rigida la diversità degli angeli.

Quanto sia implacabile l’inclusione degli alberi nelle vele umane
stropicciate dagli avvenimenti, la ritorsione del tempo, l’inizio
e la fine che devono sovrapporsi in ogni rientro
con tutte quelle orme già presenti. Evitare l’occhio rossofuoco
di chi precede, che ti sveglia, che ti dà per certo
nella dinastia degli allontanamenti, per ciò non ti aspetta.
Lo sorpassa all’indietro, il cielo come un tetto inatteso.
 

25 - 26 - 27

 

Non segue la via, fa un’altra percorrenza. S’intasa
nel parcheggio delle case che nessuno passeggia
ma dentro hanno scarpe accoppiate. Nei paesi, come perle

sulle terrazze si lanciano dei. Intrufolati in un’affacciata
diversa, sono esseri viventi che trasportano il cielo
fino a terra. Stanno nei cardini del vento quando
trattano i capelli come tegole. Attirano gli sguardi
dalla strada più degli uccelli. Apparentano i voli
 

al cammino sulla terra: la vera parcella dell’esistenza.
Quindi, lui affronta le scale e il duomo: la fatica di dio
non è da muratori. Egli si muove sul crocchio,
controlla i lavori dabbasso e al capomastro
sentenzia un salario di fede che non sfama.
Poi, navate col dito del santo che punta a un peccato
e lo annienta. Il dito indice che parla: no, non il suo
più che sonnambulo, ma quello di gesso vegliante.

 

Il silenzio che porta all’altare è un canto di equanimità.
Più voci che tacciono. Un sommesso rosario lo respira.
Incerto ancora, lui avanza chinato; l’assenza di voci innesca
la leggerezza della morte. Morte serena, rinascita ansante,

come dal balcone di un altro. Perché la morte
è così: la vedi lontana intanto ti disegna la mano.
Non avrebbe detto altrettanto del sonno
benchè loro abbiano lo stesso volto seducente.
 
28 - 29 - 30
 
Si chiede dove, in quella penombra, freni il rotolio del pianeta
all’orbita della candela; la vicenda del chiaroscuro in quel ventre
gotico alterna le chiazze dei vetri: l’ipnosi è dai colori
che incoraggiano la stabilità del sole per tutti i continenti: il nesso
con l’anima è sulle ciglia di una fede che transita nel mistero.
Capiterà anche a noi, pensa, capiterà che la nebbia ci isoli dall’erba.
Questo lo scuote, muove il braccio per eseguire un ventaglio
che spinga il fresco a  riprendere la vena:
 
dà le ginocchia agli altari, li vivacizza, ne ricava una soglia.
Non riconosce la sommossa dell’umore; scambia il tumulto
nel torace per una democrazia di credenza. La fede non calma,
lo tempesta. Solleva il capo senza patimenti, implora il collo
che non ceda. Sa che l’impalcatura degli ultimi cento passi
reggono un fragile sistema di partenze. Stenta a salirvi, stenta
a bucare la pelle, sente che sottrae a quella penombra
l’edera salvifica dai calchi in gesso.
 
Non chiede che la cenere del miracolo. Ma come vedere
la fiammella che diffonde il bagliore propizio? Il senso
del voto è congruo alla dedizione che la chiglia del cuore
dimostra al binario della rotta, ma in quel mare che l’austerità
spoglia, gli errori commessi rivelano il metallo che li attrae,
il magnetismo della carne implica la certezza che seguimmo gli angeli
finchè il demone non scommise contro e riscosse il dazio
che ci pare lieve prima della cassa.
 

31 - 32 - 33

voce: Franca Figliolini

 
Lascia le pupille in tutti gli scranni. Muove le occhiate
come folate, le agita sui ceri, sulle tovaglie degli altari,
le fissa sui leggii, le lascia al marmo: lei non è lì, lei
è l’assente. Nel luogo dove appare l’universo santo delle parole
sature di luce, viene da troppo lontano il suo nome di casa,
di ricovero. Ma lei non c’è, e per questo, quel mondo
di pratica angelica, questa capienza inumana di errori è
più minuto, più ridotto, dura di meno, gli restituisce una fine.
 
Esce nel chiostro bianco in cui agonizza il giorno.
Sente il fiato del sole crollare di schianto sulle gambe
delle lastre laviche delle scale. Dalle pietre l’urlo del caldo
stivato nell’anima del minerale riunisce la famiglia dell’afa.
Tutti gli oggetti hanno una movenza sinuosa e la stabilità
del duomo coincide con una nuova vaghezza che non c’era prima.
Poi si avvia alle riviste. I titoli, le urla fatte inchiostro,
gli spiccioli del costo, il resto e la lettura.
 
Lo stupore è orlo del sapere. Il fruibile, i sidice,
il gossip dei popoli incerti, una mela che gli dei di carta
avvolgono di polpa; vivi dipendenti da nomi a giorno, nomi
che si dovrebbero tacere; volti che conoscono il bell’aspetto.
E poi, peggio: i morti di ieri, quelli che hanno sempre gli occhi aperti,
escono dagli orologi per vivere ancora secondi. Successivi
alla rimozione di fatti nuovi nelle vecchie credenze. Sono i pani congelati
delle sillabe già note, sono il pasto quotidiano nella carestia di beni.
 
34 - 35 - 36

voce: Franca Figliolini

 
Avverte come già presente l’elenco dei partenti
la cifra che lo colloca allo scoperto, la detrazione da un panorama.
Si chiede dove è finita lei: ha un nuovo tremore, quasi
un sopravvento, la visione di uno strapiombo che si apre
e tutto il mare vi precipita dentro con il talento di velocità
della goccia più grande che può formare. Subisce il precipizio;
come l’atmosfera, s’ingessa in una parete, barcolla ancora, fatica
per escludere dall’orizzonte il peso mobile dei passanti.
 
Ma una visione è il sintomo delle date profonde, successive
o antecedenti un fatto che marchia a fuoco la mente. Mantiene
i nessi nella frattura che l’occhio causa all’orologio interno,
alla fisica dei sensi, alla supremazia del timore. La visione traduce
in frame la timeline del colpo irrisolto, fa uscire dalla cambusa del corpo
il cuoco piagato, devastato dall’ustione che il cibo più caro
ha preteso nel suo ciclo vitale: la visione è quel morso amaro
che non abbiamo avuto - non avremo - il coraggio di rifiutare.
 
Se davvero potesse innescare nel subbuglio del sangue
una bonaccia di canale, ogni pietra cesserebbe di tremare. Le sue mani,
come inebetite dal ruolo, cercano il parapetto, seguono il grado,
ma le gambe restano indietro. Poi, si muore davvero e, lentamente,
le case non fanno altro che gesti di riferimento.
La determinazione innesca il primo motore, le camme dell’occhio
alternano i pistoni dei muscoli. Sa che deve raggiungere la prima certezza,
la segnaletica degli amici di sempre, la rotta congiunta.
 
37 - 38 - 39

voce: Franca Figliolini

 
Ovvia saltando il presente, come si monta
a dorso del destriero una parola capace di evocare il miraggio.
Scioglie le briglie che la piaga gli ha messo. La piaga
avulsa da ogni guarigione. Il subdolo bisogno
di un ferro vertebra a vertebra, dov'è più molle, a frammenti.
L’eco che riceve di lei dal riconoscimento dei luoghi,
è non oltre un posto di sosta, per cui trovarla, e fuggirne,
è tuttuno cupo, ostico. C'è un non suono che si ode.
 
Il silenzio è il più grave impegno dell'urlo a fare muro
di fronte al terrore. La ricerca della sostanza
opportuna che lo dissolva a vapore nella luce
- un salvacondotto tra la voce e la fuga -
Si pensi al lembo del sole. Ha un kilt di fuoco che mostra
al buio le gambe senza disonore. Ha, il sole,
un dolore interno che avvampa e si protende
al grano in cui avvita la farina, che poi è fame sazia ed è tremore di prima.
 
Il suo male, il rovello, la fucina e il mantice,
è la mente barocca, permalosa, eppure solerte
nell’afferrare l’alba, incurante dei denti che spampinano
senza tregua la rosa del vivere, della complice sulla terra,
la straordinaria radice che non trova. Quella lingua
bruciante di lei che crollava nei toni decisi: tu sei ciò che mi ha dato
il percorso. Sei il sentiero che slancia il dirupo
che insegue. Resta alla roccia, guarisci la frana diffusa.
 
40 - 41 - 42
 
La caduta del tono restituiva alla sabbia sillabe con un rumore occulto.
Tuttavia, si dice, sarebbe ora più che uno stupore, lei
che viene. Lei che viene e non solo torna
infliggerebbe una inutile lezione ai piedi. Inciamperebbero
nella fuga che ha smesso. Nella pressione del tramonto sulla pelle.
Come un occhio turistico e curioso, immerso nel binocolo
che mette a fuoco il panorama, dirime le articolazioni
di ogni profilo, li incita ad esporsi.
 
Cammina esprimendo un’avventura in equilibrio
tra la piazza e la spiaggia. Il paese è concavo
per accogliere opportunamente il chiaroscuro, provocare
la sera di tabacco. La tenebra è nello stomaco, vuota, perché
il buio ha fame di luci e non inghiotte altro anche lui. Vorrebbe le frasi
e le risa, non l’agave della pena. Quindi gli amici, come detto, raccolti
a farsi trovare pronti. Questo gli amici: bastione. Protegge
l'esausto. Resiste all'assedio della polvere, integra la perdita di dimensione.
 
Gli amici hanno le sedie, i posti pronti e il tavolo nel petto
per poggiare i gomiti. Si sta chini tra di loro come alle fontane
per la sete. Chiudono il cerchio di oggi,
chiudono il cerchio della certezza. Spalancano
le porte che introducono al salto mentre li rincorri
e t’inserrano in alto, dove rivoluziona l'espansione del calore.
Sempre lì vorrebbero vederti, organismo fuoribondo,
cratere. Leva nella volta seguente.
 
43 - 44 - 45
 
Gli amici - li vedete? - sono sparsi all’alba, ma qui è quasi sera.
Fermi e curiosi si affacciano come finestre chiuse.
Uno su l’altro, piede e testa congiunti: nemmeno lo spazio
di un marcapiano. Parlano fitti fitti di ieri e domani.
Parlano ad una voce e con lo stesso accento.
Vengono da quest’oggi e tornano per scrollarsi le storie
appiccicate alle palpebre. Hanno nomi espressi
coperti da onomatopee: ò, uè, uelà, fiuuuuuuù.  
 
ma ne manca qualcuno che non ha più suono.
Sono disinvolti, applicati in un lavoro semplice: eseguire la vita.
Calzano gli stessi sandali, siedono sulle stesse sedie in posti
distanti. Sudano sudano nelle camicie floride
come le credenze. Ammattiscono nei saluti.
inventano conoscenze. Dimenticano le foglie cadute,
la secchezza protratta dalle penurie, dentro un fuoco di abusi.
Gli amici!, si fa fatica a scoprirli ancora evanescenti
 
uomini fatti bambini con lo zucchero filato
delle risate infantili, impervie. Sempre nel chiasso, ancora
urlanti pescatori di dolcezze e ammicamenti. Staccano
la lanugine della solitudine dai pullover delle stanze
stanno sulle foto come i santi, come aurore sul compasso delle gambe.
Gli amici li convochi alle partite, ma dalle tane
portano quei cuori larghi di sollievo: nemmeno
tanto peso, nemmeno sempre netti.
 
46 - 47 - 48
 
Chiede ad ognuno di lei. Le domande incarnano l’assillo
dell’assenza, la ricerca testarda di un sì, è là, vai, la trovi.
Regge la tellurica delle parole mancanti che lo scuote. Poi
la mano della pupilla riavvolge il tempo e vede sul telo
della palpebra il precipizio sulla scogliera. Vede il mare aprire
le braccia liquide e il suo liquido petto spalancare labbra d’acqua
e dal nero esplodere la parola della roccia in fondo. Niente più.
Esce dal flash come il soffio espugna i polmoni
 
lui affonda ridendo, con l’amaro della ginestra sulla pelle.

Pensa ad una terra di discese per camminare meglio
e pone di colpo sulle spalle il tabarro della sera
brancola con quell’ancora nel petto fino alla rena.
Ride del vuoto che lo circonda con tanti volti, s’alza
tremando sull’orlo della fuga. E’ un aviatore che cade
sul dorso e giace, scrollando la polvere
dal pallore che lo scolora.

 
Ma è l’orchestra del mare nel golfo mistico della scogliera
a raccontare alla spiaggia intristita la festa
della luna che si alza, che si alza sui gomiti
in un angolo nuovo. Avverte che le tempie urlano: sei vivo!
senza altra voce che i rimandi della sabbia
al mondo che va avanti; procede rutilando,
s’inebria e scia l’universo come una cometa folle
che ha i polsi in orbite che non rivela.
 
49 - 50 - 51
 
Ad arco, nel suo sestante di nodi, la rete vibra
di naylon grezzo, quasi colore il piombo che l’affonda
nell’orizzonte, pigra, bisognosa. Senza dannarsi
gli occhi trovano i salti dei pesci. A maglie larghe
il pescatore presenta il conto al mare e ne dirime lo spessore.
Sa delle lunghezze inutili, quindi abbandona il remo.
Già prima il salmastro raccontava ai vetri dal suo panno bianco
la venuta di pirati vocianti, quei gabbiani illeciti.
 
La rete sente per tutti il richiamo dei tonni.
Ma dove sono?, il vento traduce in suono
l’odore disfatto, sventra la spiaggia, vuole esserle interiore.
Lo scheletro della battigia mostra ossi di seppia sparsi
come una pulizia dei morti che si fa ad onde. La cominciano
spargendo sulle creste il bianco saliente del giorno
mentre sublima nel tempo aperto ed eterno

la loro infinita pulizia di parole.

 
Montale è nella sua testa: come lui percorre la pagina
un promontorio con le coste ineguagliabili di strapiombi. Lui lo recita
ai ginocchi del dio liquido che ha di fronte. Frivoli penitenti
nella navata di sale, nessun pesce esce. In quel seno
la visione è il tempo nel senso di fondo: E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi / fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi, / ma strada, ancora strada,
// e che il cammino è sempre da ricominciare
.(*)
 
52 - 53 - 54

voce: Manuela Verbasi

 
Ha certezza che la pietra mantenuta nelle mani
abbia una epidermide incrostata da diversi continenti,  
una summa di smottamenti lontani che ha voluto
raggiungerlo dai tempi profondi della Terra,
prima che si arrendesse il suo cuore cosmonauta,
eroso dagli spazi incessanti, dalla osmosi planetaria.
Dai risvolti umani. La lancia per ferirsi. Colpisce il mare.
Vuole che pianga. L’acqua gli rifiuta quel sale. Manifesta
 
una piattezza inadeguata. Un sepolcro che inaugura la notte
esiliata nelle strade. Diventa schermo; e la visione ha di nuovo
corso. Il viso di lei che emerge come un cratere in fiamme.
Il volto devastato da un terrore immane che anuncia l’urlo
inesploso, anzi, che erompe nelle sue tempie e sfrutta ogni poro
del silenzio per sedimentare nei timpani senza rendersi noto.
Ha una pelle intensa la luna che mostra la testa. Il corpo di lei è
leggero e lento nel vuoto che l’allontana da terra
 
E’ così lenta che sembra immobile mentre la raggiunge
il fondo, lo scoglio e la sorte liquida che la accoglie.
Non le sue braccia, i nervi che li trattengono, un sartiame teso
annodato alle ossa immobili. A poco a poco tutto torna.
Il buio ricrea le distanze più ampie, non trova misure,
mette oggetti immaginari e paure sui ripiani di un fondo
sempre più scuro, insicuro. Il dramma attinge dai polsi
qualsiasi gesto disegni un tizzone.
 
55 - 56 - 57

voce: Manuela Verbasi

 
Per questo continua a lanciare i feticci della roccia.
Per questo esplora la spiaggia per trovare conforto.
Per questo dalle sue costole inizia la mattanza di fremiti
inaugurati dai ricordi. Quegli stessi aerostati che lo sospendono
tra la caduta e la tenebra. In un istante inesauribile,

egocentrico neo del tempo. E ne lancia a diecine
a cento e poi ancora che il braccio duole
della frusta che traccia il colpo, e ricade

 
sul fianco, appena composto. Da sola, la notte denuda
il golfo, polmone dell’agosto in corso.
La baia ha le labbra serrate, di cui l’alta in un cielo
terso e vivo di voli, di becchi e di ali parallele
alla sarabanda che strapiomba dalla roccia
dove l’eco non attracca le sue barche già note.
Il suono si tuffa in un salto. Si reclamizza in tal modo
l’arrivo dell’oceano inascoltato.
 
L’oceano porta qui la sua lingua superando strettoie.
Scarrozza fino a pesare prigione o sepolcro sui nomi affondati:
quelli che prima di levigare le ossa inseguivano i granchi;
le orme più corte dei piedi,  i passi che alzavano disgrazie
come i decolli delle mosche: un balzo ripido
dalla pelle dell’acqua, una corsa sulla sabbia imbevuta
uno schizzo, un gonfiare la vela del riso
col vento entusiasta che non fa pressione.
 
58 - 59 - 60

voce: Manuela Verbasi

 

Sono fermi i timoni della sera. E’ il momento

di altro trasporto quando la visibilità si riduce.
I vascelli della nebbia calano sul molo a ponente.
Il ciclo dei fantasmi diurni evapora umido dal territorio
dell’onda. C’è un assemblamento di liquidi nei commenti
degli occhi. Lei è intrappolata nello schermo che si genera.
La vede, assolutamente vera quando era: ferma e impaziente
dov’è adesso la sera. La sua figura esprimeva la meridiana
 
dei sensi, il colonnato degli uomini prestava attenzione ai glutei,
il fusto sacrale poggiato sullo stilobate del malleolo,
deportato alla terra dal marmo dei polpacci, dei femori filiformi.
L’andirivieni delle rotule era una concia di secche
presunzioni che le leve delle fibre fossero asciutte bielle.
Posso solo ammettere che non fosse davvero così,
ma io non sono colui che la vede nella processione
del sangue turbolento, né mi è toccato amarla come bene
 
lui ha passione: è una sottomissione feconda e cieca, anche cupa,
assoluta. La colloca ovunque senta il bisogno di confronto vincente,
le fa dominare ogni duello bruno, crede alla sua forma mora, al rovo
che la comprende. Ammira la marea della lingua
tra i faraglioni  dei denti quando la flotta delle parole li attraversano.
Situa nella trincea delle tempie i suoi soldatini di terra, la difende
dall’assedio del dubbio che, se non c’è, è soltanto perché
la notte ai lampioni appare alba nella china del tunnel.
 
61 - 62 - 63

voce: Manuela Verbasi

 

Lo stretto corridoio dei gabbioni fissa l’ala del costone

ai gabbiani stanchi. Il tuffo naturale nella pesca scaglia
il loro becco chiuso tra le scapole strette. Si aggregano i moscerini
come flotte caotiche allo sbarco dei lampioni
che appunta loro la morte in un drammatico chiarore. Nella volta
stanno immobili come boia queste crepe del buio.
Da esse, gli intransigenti estraggono un sonno maturo:
non si fa in tempo a sognare che si sfarina. Lui non si conosce
 
da quel lato: fanno così i cuscini che ne pesano le visioni
incatramate alle federe come il manto alle ruote.
E sono viaggi che portano il dubbio delle direzioni
ai bivi in cui s’incanala il sonno. Sono momenti
che agli orologi non risultano: non sono segnati, esistono
solo nella paura che non appaia all’occhio quell’incertezza
delle palpebre di tenere dietro al respiro. Dormiveglia
animali, senza riposo, nel chivalà di fremiti
 
che liberano uragani nelle orecchie. Per questo è certo
che la cupola del sonno non ha lucernaio. Trasferisce
l’aria nera inquieta nello scafandro del corpo. La sua
isobara è nei tendini, è il profilo ossessivo dell’incubo
che non molla mai la presa, finché il risveglio degli spettri
non è completo e non c’è più calma né luce, né buio o declino
soltanto un sottile confine di lenzuola stravolte
che nemmeno all’aurora trova un posto comodo.
 
64 - 65 - 66

(1) voce: Amara; musica B.Eno.

 

Crede che lì, in alto, sul costone, risieda l’equilibrio

il primo passo espressivo, la falcata col gesto sobrio
che esorta l’umore ad esprimere l’estro dell’abbandono:
pensa, con lucidità a lavare in un colpo la vita. E’ una dinamica
orrenda, come adesso avviarsi a sua volta, rientrare nell’epidemia
della casa, contagiarsi di pareti. La saldezza dello spazio
circostante impedisce l’urlo, lo incapsula nell’osso
cavo della risacca. Scoscia con un ritmo di nenia.
 
L’assente, lei, il sollievo depredato, l’estimo delle mancanze, lei
che ruota col suo nome muto sullo stelo delle ginestre

come ago magnetico, così saprebbe quando
il pensiero cade e come fiorisce davvero un seme. lui è
convinto che se i ricordi fossero davanti, se cioè si potesse
al presente essere dentro ieri, conoscendo ogni memoria
(quasi ancora dovesse accadere) sarebbe olmo
o platano a dirimere i grovigli afosi, terrebbe aperti i cancelli

 
delle chiome, per farsi entrare dai rondoni, dalle gabbianelle
ne amerebbe i figli, le case di stecchi e saliva
gli leggerebbe le quote quando dalle rotte
planano nel meridione dove il giallo plastico indica
la compatezza del sole. Lui è invece scosso da tensioni
sconta il tremore della disillusione: non è la roccia
di una vetta millenaria, ma sfarina argilla che non tiene
e sono verbi le lame che la modellano.
 
67 - 68 - 69

voce: Manuela Verbasi

 

Lavare in un colpo la vita è solo della morte.

Delle rapide del silenzio che raccolgono in basso
i grovigli delle visioni, il loro turbinare in vortici simili
a bulloni; la brugola di un buon motivo per cui
disporsi a realizzarle gira a vuoto. Ed il vuoto - quest’angoscia
inattesa e furente - contamina i sensi e li spegne.
Perché all’angoscia ci si oppone singolarmente:
o, è fortuna, con un affetto prepotente. La notte
 
è per questo solidale, non distingue da cosa a cosa. E’ lì

che s’avvia il pistone della voce. E’ lì che parte una qualsiasi
abluzione con l’unguento del buio ad appiattire urla,
a distrarre le mani nell’esplosione della fine.
E’ davvero una spinta, l’ebbrezza che precede la morte voluta.
Eccomi alla terra, lui avrebbe detto, eccomi
all’impresa di trovare dei trampoli più alti dei piedi.
Qualcosa capace di staccarlo dal fondo

 
portarlo con passo più ampio allo scatto seguente,
all’arrivo aggrappato al traguardo su in alto; e di lì
osservare ripiegando stanchezze l’affanno degli ultimi
abbattuti per strada. Perché questa è in vita la corsa e questa
la regola: superare schiacciando, senza mai un fiato
ai caduti; e più caduti ci sono e più s’avvicina la gloria. Il ricordo
è fatto di tanti detriti: maggiore il volume, migliore
la raccolta. E il suo sgherro, la sconfitta esiliata dal corpo.
 
70 - 71 - 72

voce: Manuela Verbasi

 

Quindi, la morte come lavandaia sul greto. Col culo

enorme che esegue una danza di strofinamenti,
una gazzarra per i fianchi che attraggono senza freni
ma che nel volto ha i segni del decubito perenne.
Stabilisce, in quella pozza lucida, la cenere – detersiva, sbiancante –
dalla caduta adeguata, la dismissione di tutti gli atti
che incurvano il portamento. Lui vorrebbe espugnare il dolore
della scomparsa nell’unico gesto che non potrebbe ricordare:
 
distruggere la stanza del cranio in cui alberga ancora
lo straniero articolato dalla mente, generato come una magnolia,
che incattivisce i semi corazzandoli dal vento. Ma la morte è
soprattutto un non rientro. Essa mantiene la sua locomotiva
priva di caldaia. Va, nella discesa alla terra, perché attratta
dal peso immane del nulla equivalente. Nessun vapore
riavvolge le ruote alla stazione di partenza, nessun abbrivio
la spinge più in là delle ossa che lascia allo spedizioniere espresso.
 
Nel rimbalzo tra rimanere e diventare, capisce che la vera ricompensa
è respirare continuamente, nemmeno accorgendosi
che vivere è comunque una fatica orrenda che sublima
negli occhi l’avvento del presente, l’encomio della genesi che permette
di appartenere ai successivi aggiustamenti, spostati in avanti, futuri
connotati degli indirizzi, dotazione di richiami, toccati
dall’avventura di scoprirsi ancora centro, desiderio. L’orma
commessa dal piede deciso, incosciente della sua supplenza.
 
73 - 74 - 75
 
Lo sperone di roccia è una costola espulsa dal cielo nero.
Si capisce dal magnetismo con cui lo imprigiona. Lo sente
in quell’assenza di colore in cui sembra muto ogni rimorso.  
Avverte una forza che lo solleva a perdita d’occhio, che anche lui
perde, e poi dabbasso a mezz’aria lo blocca. Gli ferma lo stomaco
prima che l’impatto lo esploda in gocce sulla vena d’asfalto
che scorrazza, incanala globuli a motore, sangue ricco
di ferro e ottani di piombo: la strada è uno stige
 
catramoso percorso da luminescenze veloci, come tafani
irrompono da ronzii precoci. E l’idea del volo porta lo sguardo
ai nuguli di follie che si schiantano sui fanali, circondati
con quelle minime ali senza rumore: muiono convinti
di aver raggiunto il sole. Rinsecchiscono al calore
di un elettrodo o di un gas di fuoco; e nella gran confusione,
smarriscono il nome del fiore a cui hanno preso il cuore.
Lo attrae il tentativo strategico e leggero di una falena
 
che studia come rubare il chiarore alogeno della stella a muro.
Percepisce la sua danza come un presagio di estrema unzione,
si avvicina deciso, va sulla scena, nel parco della luna, immette
nell’aria una persecuzione, una frattura al ballo di morte
a cui ignaro l’insetto si presta, lo salva dal suo miraggio,
gli restituisce una rotta sicura. Ma, si sa, l’insetto
è un foro chiuso nel buio che libera un sogno oscuro.
Più in là, altre stelle sul muro, non hanno il suo scudo.
 
76 - 77 - 78
 

 voce: Mario Calzolaro

 
Si sente fragile, calato in quell’evento senza alcuna
astuzia, al cospetto della notte che si presenta
lucida, implacabile. Sa del suo abbandono alla coscienza
del buio che ansima, mentre anch’essa nuda, s’inorgoglisce
per l’illusione di coperta calda ch’è capace di creare.
Da questa, lui non è in grado di separarsi. La falena non è incauta,
pensa, accerta la mancanza dei riferimenti o una lettura
inadatta, ma affine al suo destino di lasciare la crasi della luna
 
per il nome lungo del sole. Cerca uno spiraglio nel sintomo
del morbo che la ammala di tenebra. Così fa lui, così fece lei:
più matura del primo frutto che, cadendo, ci indicò
come sopravvivere con dolcezza. Più ricca di grazia di quell’alba
che sta per giungere, con la sua arguzia di raso nascosta
perché non s’offenda l’arroganza dell’uomo, col suo girocollo
di pampini dà sapore al vino delle nuove esistenze. Lei, che dal rosalatte
ora emerge come passeggero di vapore, lei che lo spinge sul costone
 
che abbandona, lei che si divincola dall’abbraccio con cautela,
lei, incensurata per il cielo che non avrebbe dovuto averla,
il suo stupore, l’incredulità dell’atto estremo che sfugge
ai confini delle stelle di paese. Alla loro corta raggiera
di veduta, alle finestre che si schiudono per chiudersi
alla minima vergogna, al timore del si dice e si dirà.
Lei che si lascia andare, lei che per l’aria inesatta
che la circorda tutto è tranne la falena che dovrebbe.
 
79 - 80 - 81

(1) voce: Amara; musica B.Eno.

 
La falena che precipita come un sasso molle, eroso
dalla marea, l’acqua della chiacchiera che va di bocca
in bocca per essere sputata sulla rosa a lavarle il colore.
Quella tinta evidente di pura passione che rende il petalo
degno di tutte le attenzioni. Osserva le sue mani,
ruota i polsi, recupera dalle macchie, dai nei, dalle nocche
le mani di lei che rompono la resistenza della loro stretta
e spingono, spingono dal petto per lasciarsi cadere.
 
Vede finalmente con chiarezza, partecipa, non subisce più
l’inghippo della memoria; la dirima una soffusa aria di ripartenza.
Un tono basso e brumoso, da oriente, apre la cerniera
dell'ultimo nero. Appare concreta la scelta di essere cielo al cielo
e mare al mare, e terra solo, la rena; ed un uomo, come strappato
a radici torte e dotato il tronco di appendici opportune,
va a spendersi il conio di nuova moneta nell’astruso mercato
dove vita è la merce deperibile continuamente esposta.
 
Oltre la cortina della pelle, chiuso nel circolo degli incubi
il clandestino del buio evade di colpo. Legge, nella mappa
dell’aurora, il percorso a ritroso che compie la tenebra quando
rincula il fucile del raggio che le spara contro una palla di fuoco,
Coglie le reali dimensioni della ferita che non può più nascondere.
Permette alla bocca uno scavo nell’aria, la lingua
impara il condotto, il pozzo della gola è un percorso di miniera
nel torace aperto che lo estrae dalla notte col diamante negli occhi.
 
82 - 83 - 84
 
Spinge con le gambe il capo. La corona della luce restituisce
i volumi. La loro sopportabile deflagrazione riannoda
lembi al litorale. Intorno, qualsiasi paio d’ali si occupa
di annunciare l’effervescenza che coglie la costa in elevazione.
Lui avverte la stanchezza come un dovere. La dimentica
per immagazzinare l’ossigeno nei muscoli vuoti, nello stomaco
che aspetta morsi da tante ore. La sua volontà ha una frusta
che adesso percuote i bronchi. Si allontana ansimando,
 
cerca lo spazio tra i muri, infila lentamente vicoli e scale,
lascia la rotta all’automa, al pilota che districa il porto. La casa
offre il suo molo di calce, la bitta della porta, la parete come
una camelia gialla poderosa, che ora sì, si può guardare
senza temere proiezioni. Il comò su cui si poggia, non enumera
dai ninnoli gli innumerevoli rimorsi. Le cornici con i visi pacati
le bocche ferme, gli sguardi nient’affato severi o pietosi,
ma esperti, consci della semplificazione degli umori nei suoi occhi.
 
E’ la duna, riflette, che cambia il deserto. Se l’apatia del vento
diventa corsa e impugna i profili per disporli meglio,
non può piegarsi, piegarsi, piegarsi e concedere al dolore
la supremazia nelle vicende, la disposizione del sudore.
Biasima le ascelle per l’incontinenza, la fronte che espelle
gocce, ma mai ha potuto altrettanto col malessere, l’inguine
lascivo nell’ombra più pudica che c’era, l’odore acido della vita
che da adesso è un ricatto del corpo, una tassa indecente.
 
85 - 86 - 87
 

 voce Mario Calzolaro

 
Entra in questo modo nell’atmosfera del silenzio,
da un bivio feroce, esplora la sintesi del riposo,
il tappeto dei nervi finalmente disteso.
Inizia, perciò, dove aveva lasciato, ma a questo punto
i minuti sono galeoni da guerra, aprono velature possenti, capaci
di inghiottire il mare con labbra di tela. Il vento, comunque,
ancora non si vede, però lui sa che non mancherà al risveglio.
Osserva le sedie, le sue antiche sirene. Solleva i piedi
 
con molta attenzione: teme che il pavimento lo ributti fuori,
ma questa volta è fermo, benché ancora trascini mattonelle.
Si abbandona sul letto. La sua storia non può essere solo proposta, 
occorre un aiuto dai segni. Rivisita i luoghi trascorsi.
Lo storyboard che ha in mente, compone alla moviola le scene
atroci seppellite nelle tempie. Ha cura della penombra in cui avviene,
la solidifica abbassando le palpebre. La curva del belvedere in cui lei
grida: fermati!, la frenata immediata scudiscia la schiena
 
dell’asfalto, lo stridore esprime il disappunto
dell’auto a quei cambi repentini di aderenza al percorso.
E c’è il sole, come tra poco avrebbe infuocato il fondo
e le bavose disseccato saliva sul mantello degli scogli.
Lei sulla coda del dirupo, lei sull’abisso che non teme.
Lei, con la sua pelle tragica, netta di sudori, già conscia del freddo
che il volo comporta agli sventurati implumi, lei controlla
l’orizzonte nei suoi occhi e li chiude di colpo.
 
88 - 89 - 90

(1) voce: Amara

 
Il carapace dell’iride è la palpebra, dunque. La pupilla
è una tartaruga delusa: rotea per conto suo nell’orbita.
Se giunge alla riva dell’oggetto, siede sul bordo,
depone il ricordo come uova nascoste, le sotterra
in un fosso gelatinoso. Non c’è che un rapace di terra
che possa cibarsene: l’iguana vorace del pensiero,
il cui unico ufficio efficiente è coniugare la bocca
al passato quando divora i nomi, i luoghi e la treccia dei giorni.
 
Giorni bianchi, ore che insidiano ossessioni nel colore. Follie,
per quei denti che lei scopre come riso insaziabile. Denti
di onda. Creste, spume, morso di un pesce luminoso.
Lei, che spegne e riaccende il sole se solo sale ai glicini
nel porto, eppure resta nell’ombra e l’ombra
muta in zaffiro la sua qualità nera. Una disperata protezione.
Una sentinella muta della grotta di tempo
in cui si ripara dalla gente il loro amore ieratico e timoroso.
 
Esplodono nella fronte le sacche in cui cela le visioni.
Cerca di trattenere le ossa del capo, puntella con le dita
le tempie, libera le mani quasi stesse recandole
ad un furto. L’ama ancora. La divora. Teorizza, adesso
che può, la sua ascesi. La chiama dea senza nominarla
poi le dà un nome che non ha e se non risponde
o non si gira, è perché lui non pronuncia parola.
L’ultima ecchimosi prima che la mente elabori un sonno vuoto.
 
91 - 92 - 93

 voce: Mario Calzolaro

 
Il sonno è vuoto quando la profondità collima
all’indulgenza del riposo. Sarebbe a dire che uno scavo
dalla nuca espelle la geometria del panico, la sfera
pusillanime, il pianto avulso dal contrappeso della lacrima.
Ne discende il pozzo che situa la camera dell’incoscienza
nella pancia del vulcano, dove il magma delle emozioni
è rude e primitivo, l’ansia si ritempra per uno schiacciamento
abissale, le pulsioni assottigliano il fusto e, come
 
anguille rimosse dai sargassi, attraversano il sangue
per morire con cautela, riducendo il loro volume
fino ai fili dei capelli ed evaporano da gocce di sudore.
Questo può un sonno vuoto per un breve lasso di tempo
poi ti svegli e si riaffaccia il vortice dagli occhi.
Così a lui, soltanto due ore dopo. Se non fosse stato
in quella casa per un anno intero, imbarcato su sedie
come oscuri barconi nel tedio, corteccia del canale
 
più quieto, pure avrebbe riconosciuto per quello che erano
qualche ninnolo, o il comò, o il quadro della vergine
vicino alla finestra. Eppure, il risveglio diluisce il faro
che gli oggetti accendono per avvisarci dei contorni,
per ricollocarsi nella nostra storia. Ma il risveglio salda le cose
tra loro, le rende equivoche, erronee, come se un cartello
al crocicchio non ci prendesse per mano, non ostentasse
la lungimiranza dei nomi nell’osservazione dei luoghi.
 
94 - 95 - 96

voce: Manuela Verbasi

 
Quindi guarda ciò che sa di poter distinguere:
il bicchiere, la bussola, la padella, l’ora. La certezza ha profili
eseguiti in senso orario. Nient’altro che lancette determinano
l’emporio della storia, e oscuri gesti meccanici
aprono la feritoia del primo vero giorno
senza peso, che scioglie la lungaggine dei vecchi
marciapiedi della casa, per esprimere la fretta.
Per quanto rapidi, adesso, lui non omette gesti:
 
gli stanno addosso nei vestiti di ieri, così, più saturi
delle parole che lo spingono, quasi un discorso
coraggioso, senza rendersene conto. Uscire, riprendere
il lavoro del torace nell’aria afosa. Una occupazione
ancorchè umile, ma vitale, sanguinosa.
Vede ancora adesso gli occhi incresciosi,
ah! quegli occhi stretti come accuse,
gli davano visioni lunghe, però sempre più rade.
 
Quella lei che non fu così donna
prima che lui la vedesse sciogliersi i capelli:
neri, proprio neri come un neo di tempesta
nella crosta trasparente della Terra. Quella lei
che a sederla lì non si vedeva, ma appariva congrua
al limine della porta. In fine è andare, si dice,
e prepara il vaso di ipotesi perché fiorisca
dentro quel che resta dell’uomo all’uomo risolto.
 
97 - 98 - 99
 
Sole! Acqua! Disillusione! Fuori! Acqua! Sole!
Quanto sarebbe estrema l’eco, se la voce avvinghiasse
le reti che sono pesanti sepolcri. Sepolcro il mare
in cui nuotano voci morte, osservazioni di corpi soli.
Spettacolo di un altro paradiso in cui si impiegano
i santi pinnati per non andare a fondo, già feriti
col petto trapassato dalla vendetta dei tonni.
Il vecchio è sempre lì che annoda ami ai palamiti
 
e dispone la coffa per calarli dopo il tramonto.
Legge in quella lentezza l’attenzione del sarto.
Trema, immaginando quanto sia vicina l’aria all’acqua
nei tuffi dei volatili che fiondano i becchi sugli ami
prima che affondino; e diventano pesce senza saperlo
con le ali che investono l’onda di pesanti maledizioni.
Lui ha sputato l’uncino che ostruiva la trachea
quel feroce metallo della colpa appuntato in gola.
 
Si china sul viso dell’uomo come un buon confidente
vi scopre le pieghe di cento tempeste, i suoi zigomi scardinati
dal sale, guance che i venti hanno scavato, insinuato di rame
e negli occhi la chiglia di vascelli senza ferro,  leggeri e trasparenti.
Sa che quella è il molo, l’approdo conveniente: vuoi insegnarmi
a darti una mano?, gli dice. E il vecchio, con denti da caduta
infantile: io nun tengo cchiù tiempo e tu già ne ‘e perso assaie,
assiettate e vire, ca stanotte s’accommencia (**).
 
100
 
                Eravamo sulla roccia a strapiombo dove la costa è uno sperone del tutto simile ad un dito puntato nell’occhio mobile del mare. Le onde del Tirreno sembravano un continuo battito di ciglia che umidifica l’orbita per liberarsi dei grani di calcare. 
 
                Fermi alla curva, proiettati sullo sbalzo che regge una terrazza naturale dall’incredibile sapore di pericolo, osservavamo la baia a cui dava luogo lo stretto promontorio. Chiusi l’uno nell’altro, ci apriva il sordo rimbombo sotto i nostri piedi: sembrava provenire dal centro della terra ed amplificarsi in noi, ma era solo il mare che costruiva la sua veranda sottomarina.
                Quaranta metri più sotto, a destra del nostro punto di osservazione, il terrore svaniva in una morbida spiaggia bianca, che pareva un sorriso di bimbo, e le ginestre, sulle pareti dell’imbuto costiero, erano un’indomabile chiosa gialla che accompagnava la rada a darsi alla macchia mediterranea.
                Poco prima, il vento della velocità, nella decappotabile nera, aveva scompigliato pensieri ed attese, come capita negli improvvisi rovesci della sorte. Portano, in un attimo, dalla più ampia serenità al tormento, quasi che di colpo si frappongano ostruzioni nel pensiero a causa di involontari gesti che non ci riappacificano con il senso delle parole.
                Lei aveva chiuso in modo repentino la ferita di quella mattinata straripante sole e dolore: un mix ineffabile tra il martello del sorriso e l’incudine del “non c’è più spazio per noi. La gente ormai sembra al corrente della nostra storia, e Paolo potrebbe sapere…”  Frase fatta, frase banale; sorriso di circostanza, sorriso falso. Sofferenza vera. Non mi è mai stato possibile capire come si possa  deviare da un percorso consolidato, forse abitudinario, ma stabile, in modo così repentino: una chicane; dall’affetto all’indifferenza, attraversata con lo slancio della più rapida volubilità mai vista. Mi opposi, con tutti gli argomenti più ovvi che può un uomo mentre si schianta al suolo. Cercavo l’abbraccio, la certezza del suo sapore. Cercavo la sua bocca per rintuzzare il dolore che ad onde si faceva largo nella discussione. La sentii pronunciare come un disco rotto cento volte la stessa condanna
                Ma lei, lei, era così.
                In quel modo aveva occupato le mie giornate, disteso la sua presenza voluttuaria in grappoli di attese; convertito qualsiasi ombra nel suo profilo; padroneggiato gli ambienti, le crepe dei muri, i colori delle piante rinsecchite, gli odori dei vestiti, gli asciugatoi sgualciti. Ogni oggetto che avevo trascurato aveva un nome che lei chiamava con confidenza, forzando con grazia le mie resistenze, con quel profumo di prato selvatico in cui l’ortica s’accompagna alla viola ed il rovo alla mora; e mori i suoi capelli, odoravano d’acqua e rosa; more le sue ciglia e le pelurie libere che ammorbidivano le sue braccia ed il suo ventre.
                Aveva quanto da sempre cercavo, ed il mio “sempre” era un quarantennio pieno e amaro.
                Pure, avvertivo incombere un pericolo irreale.
                La sentii avvicinarsi da dietro. Un passo leggero sul ghiaietto di fianco. Superarmi e porsi all’orizzonte quasi in sfida al dirupo.
                Il profumo di acqua e di rosa inebriò le narici che si dilatarono come mani a raccoglierlo. Una vertigine immediata mi prese come quando riappariva dalla doccia cantilenando. Provai un lancinante desiderio di stringerla a me e lasciai che le braccia lentamente salissero alle sue spalle: era vicina, dannatamente vicina. Lei stese di colpo le sue, puntò al mio torace, spinse con una forza che non le conoscevo, indietreggiò, il passo più lungo della terra, cadde all’indietro aggredendo l’aria che non fece resistenza, mi lanciai per trattenerla: inutilmente. Fondemmo le nostre voci in un urlo inumano più alto di qualsiasi cima. Udii, come per una eco, quello di una donna, provenire da un’auto che proprio in quel momento giungeva. La frenata violenta, istintiva.
          L’orizzonte cambiò posto nel mio universo.
 
                Dopo un tempo che sfuggiva ad ogni orologio: le sirene, poi lunghi giorni incapaci di coerenze orarie, l’assuefazione alle brutture mortificanti della cattività, l’annullamento dell’uomo incapace di affermare la propria innocenza, la certezza che sentirsi colpevoli è interno a se stessi, non certo alla legge. La cella definita e misurata in cui la mente operava la costante metodica della gomma quando sfilaccia il foglio perché la traccia mai più appaia, dodici anni di cancellazioni. Ma sì, volevo uscire, uscire, però anche, soprattutto, pagare in modo definitivo nello stesso luogo in cui il mondo aveva reso noto il senso della mia condizione, subire un costo più esigente, la stessa sorte, punito fino in fondo. Quindi resistere, fino a che s’apre il portone, finchè la strada riappare senza un muro in fondo. Finchè, trascinando i piedi come un bagaglio si giunge allo stesso punto e il cerchio si chiude con lo stesso urlo che lo genera.
                Quanti giorni anchilosati prima che una falena rimettesse a posto l’orizzonte: la luce, se non la eviti, ti porta ovunque.
 
(*) Eugenio Montale - A galla da: Poesie disperse
(**) Io non ho più tempo e tu ne hai già perso molto,

      siediti e guarda, perchè stanotte si comincia.

 
 
 

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