Lui sta lì disteso per dare peso ad una sedia. Su di lui
navigano minuti con barche inadeguate. Poggia
ad un’altra le toppe delle calze. Senza i piedi
il pavimento gli passa di fianco. La sabbia
cambia il tempo più col suono che dai segni.
I segni sono dubbi: credere è infinito non imperativo.
E’ ancora oggi, domani
com’è sul calendario? C’è più di un santo, parrebbe festa.
Niente di suo, beninteso, ma buoni per la camicia,
la mutanda candida, il sugo con la carne. Forse pioverà
e non si potrà fare nulla che non sia già. Così aspetta
per sapere dove porta la vita, senz’affanno.
Domani c’è più vita solida che un culo da sedere.
Si andrebbe all’altare se fosse casa. Si andrebbe,
Ora - e solo ora - s’accorge che il mare avanza.
Crede di capire i pesci e il peso che li circonda; lui
sulla sedia affonda, loro s’adunano a branchi. Gli uomini
- tutti gli uomini - quando, e se, crescono, maturano soli.
Vorrebbe un bacio e lo cerca. Non cade
per non vedersi intorno stanco e non si muove.
Ama il silenzio e va di qui o di là.
Stando alla vita, vive di suo domani.
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dalle mani. Lui sa che non vede lontano: capisce
che può immaginarlo. Sente, questo sì, e deve dormire
per andare a fondo. Vede in giro l’occorrente: il letto
inesauribile, la noia, la solitudine della stanza, rimanere.
Vorrebbe lasciarsi andare nella vena della penombra, la resa
prima della porta, per quel male del gioco che fa dire
perché non farlo e si facesse il sonno.
Quindi, lui, il suo occhio, lo inaugura sul posto, poi lo spinge
oltre: lo troverà di fuori, già prima che vi si rechi. Direbbe
che tocca ogni cosa per sentirla sua. Usa le dita per credere
che sia vera: non le sue, quelle degli altri,
in tal modo tutti toccano ciò che per lui è bello.
Per questo guarda ovunque, insegue una idea del
sorriso esemplare e tocca i suoi denti;
esplora i morsi non dati: li avverte.
Intanto parla in giro agli assenti, origlia la risposta del silenzio,
incespica per la soglia alta dell’attesa; gli occhi che ancora
toccano più delle labbra quel posto che non è in lei.
Lei: cosa dirle ancora mentre non c’è? Basta una frase corta
come: ti attendevo, ora siedi. Ma ha certezza che non funzioni
se è sveglio. Occorrono mani diverse con l’abitudine
ad essere altrove, ad essere faro o in cammino.
Non lontano, al buio.
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Adesso costruisce la memoria come un palco
o giù di lì. Era onesto il dito indice, una direzione di nodi
da sciogliere, un vento tremendo dalla mano del padre.
Ora è una parola con piccole ossa tra le tempie. Un suono
in cui il suo universo intero si presenta: sembra,
da qui, una divinità obesa con gambe molli che lo viaggiano
- chissà per dove, da chissà cosa - portando lui
con quella faccia piena di satelliti, di domande esposte.
Direbbe che c’è ancora il padre, ma non lo vede. Si tiene alla larga
dall’approfondire perché gli orbiti nelle cellule. Avanza
poco: si muove col suo peso; e via così, la leva delle gambe
Tutto gira sulle assi del cosmo ed il suo asse regge
le mele dei pianeti e le arance della luce. Ora vara
la sua ombra come un battello, ci vorrebbe un padre
Lo vedi che somma meteore insonni e le tramuta in fatti
desiderati, poi: un qualche seme foglia la decisione
e una speranza sembra treno come salire o scendere
senza fissa dimora, a sottrazione dall’esserci stato
o il ritornare. Magari a quella carne da cui proviene,
magari al ventre del mare che lo affronta. È lì che osserva
perché chiamati a gran voce da vivi.
Ora lui dovrà uscire, muoversi al limite, inalberare lo sguardo
a misura di naso: la gente, il loro fiuto, la certezza
nel capire quando è giorno. Farà caldo per tutti, pensa.
Potranno stare nudi dalla cintola in su
quegli altri che dai seni stillano gli usi
del piacere quando è più di un bacio. Pensa che il giorno
si fa dai seni, come quando il sole è il capezzolo
del cielo e si allattano le terrazze di luce.
E’ il momento. Gira un vento senza regole
già in cucina. Aria fresca, da nordovest;
quasi soffio. Arriva nel caffè, lo rende passeggero
e gli precipita in volto. Sbatte la porta
con la fretta di andar via, quindi avvolge le suppellettili
senza toccarle, imbocca lo spazio e provoca
manfrine alle tende.
Eccolo il refolo come serve. Analogo alla sorpresa
delle secche rughe di noia o una leggera pioggia
sulle scarpe, sulle spalle, sulle efelidi - che sono giuste sulla pelle:
giuste come ninfee sul dorso dell’acqua quieta.
Lui è uscito finalmente dall’equivoco della sosta:
cammina e si ribella alla morte. Le copre la bussola
e respira ancora.
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Cerca per qualche istante di aderire all’aria
traspare dalla gente, si spande nei passi
come fanno in planata i grandi alati
sorretti da un piglio di correnti
sulle cupole ferme e sui gesti da passeggio.
Fuori dalla sua sedia, oltre la caverna del monitor,
girano le consorterie di tutte le follie disciplinate
dalla strada, regolate da segnali espliciti, irridenti.
Avverte il dubbio di ogni luogo in ombra:
adeguarsi alla prospettiva col volume misterioso dei fuochi
o lasciare che la luce sveli il ricatto delle crepe.
Al giorno chiede quella chiarezza di respiro
che la camicia avanza al colletto aperto:
il petto - incavo disfatto -, un bottone
caduco, la peluria come libertà alla finestra.
Sta nei vestiti come ospite precario.
per ogni uomo colto ai tavoli dei bar.
Ogni minuto chiuso in numeri vaghi, l'orologio
dei posti o dei bicchieri, è un tesoro
di dialogo e promessa. Le labbra agli orli
senza più parole adatte. Persi nei desiderata degli alcoli
quasi scogli a questa riva del Tirreno. Tutti seduti
a fare gli orbi o tutti in piedi a cercare un flirt.
Alti, ineguagliati, steli di prato in piazza
che ad uno ad uno li spingono sui bus
della transumanza oltreterra. Di quelle stazioni
lui ha altre dimensioni: filiformi all’arrivo
strette ai gomiti nelle partenze.
Portano figure semplici nelle vite dipinte e alzano
dalle gambe i peana di gloria o di pena.
Sono comuni alle ombre, inutili ai gigli.
La gente è questa, la gente è un fulcro
che abbassa il ponte ai potenti purchè salvi la sedia.
che alla fretta costa più di uno stordimento.
A volte, la gente, è ferma in piena parvenza.
La gente, qualsiasi gente, va da un punto all’altro
delle generazioni con quell’adeguarsi opportuno
Osservate le panche che hanno davanti ginocchia
conserte: quelle braccia, quei pensieri di resa,
sono il conto del loro mistero. La gente
non controlla dove nasce folla e si spegne deserto.
amava estrarre il timore con un dono, poi, col fiato,
Se le avesse battute - sapeva - seppelliva quell’oro
nell’isola che dalle anime trae la sabbia del corpo
Sua madre, il miele introvabile, la cura inestinguibile,
all’alba con assoluta certezza della luce: era grazia e farina.
al drago della sera: si liberano fiamme al tramonto. Sempre solo,
ora che lei ha su di lui uno sguardo, ora che quella visione nubile
Si alza, le gambe fuori dai momenti già trascorsi,
come mesi; il cuneo dell’attimo spinto dagli anni
Va di lato, con quell’ansia di trovare direzione
del paese; cerca il bandolo del futuro prossimo,
la riuscita che manifesti l’uomo.
Ma l’uomo non è che l’una e l’altra parte del muro di pelle: entra
si formano le coppie in cammino. Quelle che
vanno pari pari ai quasi figli o al completo orrore.
Quindi lui, in piedi, avverte com’è rigida la diversità degli angeli.
e la fine che devono sovrapporsi in ogni rientro
con tutte quelle orme già presenti. Evitare l’occhio rossofuoco
di chi precede, che ti sveglia, che ti dà per certo
nella dinastia degli allontanamenti, per ciò non ti aspetta.
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Non segue la via, fa un’altra percorrenza. S’intasa
nel parcheggio delle case che nessuno passeggia
ma dentro hanno scarpe accoppiate. Nei paesi, come perle
diversa, sono esseri viventi che trasportano il cielo
fino a terra. Stanno nei cardini del vento quando
trattano i capelli come tegole. Attirano gli sguardi
dalla strada più degli uccelli. Apparentano i voli
al cammino sulla terra: la vera parcella dell’esistenza.
Quindi, lui affronta le scale e il duomo: la fatica di dio
non è da muratori. Egli si muove sul crocchio,
controlla i lavori dabbasso e al capomastro
sentenzia un salario di fede che non sfama.
Poi, navate col dito del santo che punta a un peccato
e lo annienta. Il dito indice che parla: no, non il suo
più che sonnambulo, ma quello di gesso vegliante.
Il silenzio che porta all’altare è un canto di equanimità.
Più voci che tacciono. Un sommesso rosario lo respira.
Incerto ancora, lui avanza chinato; l’assenza di voci innesca
la leggerezza della morte. Morte serena, rinascita ansante,
è così: la vedi lontana intanto ti disegna la mano.
Non avrebbe detto altrettanto del sonno
benchè loro abbiano lo stesso volto seducente.
Questo lo scuote, muove il braccio per eseguire un ventaglio
che spinga il fresco a riprendere la vena:
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voce: Franca Figliolini
Poi si avvia alle riviste. I titoli, le urla fatte inchiostro,
gli spiccioli del costo, il resto e la lettura.
voce: Franca Figliolini
voce: Franca Figliolini
a dorso del destriero una parola capace di evocare il miraggio.
Scioglie le briglie che la piaga gli ha messo. La piaga
avulsa da ogni guarigione. Il subdolo bisogno
di un ferro vertebra a vertebra, dov'è più molle, a frammenti.
è non oltre un posto di sosta, per cui trovarla, e fuggirne,
è tuttuno cupo, ostico. C'è un non suono che si ode.
di fronte al terrore. La ricerca della sostanza
opportuna che lo dissolva a vapore nella luce
- un salvacondotto tra la voce e la fuga -
Si pensi al lembo del sole. Ha un kilt di fuoco che mostra
al buio le gambe senza disonore. Ha, il sole,
è la mente barocca, permalosa, eppure solerte
nell’afferrare l’alba, incurante dei denti che spampinano
senza tregua la rosa del vivere, della complice sulla terra,
bruciante di lei che crollava nei toni decisi: tu sei ciò che mi ha dato
il percorso. Sei il sentiero che slancia il dirupo
che insegue. Resta alla roccia, guarisci la frana diffusa.
infliggerebbe una inutile lezione ai piedi. Inciamperebbero
per accogliere opportunamente il chiaroscuro, provocare
e le risa, non l’agave della pena. Quindi gli amici, come detto, raccolti
a farsi trovare pronti. Questo gli amici: bastione. Protegge
per la sete. Chiudono il cerchio di oggi,
chiudono il cerchio della certezza. Spalancano
le porte che introducono al salto mentre li rincorri
e t’inserrano in alto, dove rivoluziona l'espansione del calore.
Sempre lì vorrebbero vederti, organismo fuoribondo,
Uno su l’altro, piede e testa congiunti: nemmeno lo spazio
di un marcapiano. Parlano fitti fitti di ieri e domani.
Parlano ad una voce e con lo stesso accento.
Vengono da quest’oggi e tornano per scrollarsi le storie
appiccicate alle palpebre. Hanno nomi espressi
distanti. Sudano sudano nelle camicie floride
come le credenze. Ammattiscono nei saluti.
inventano conoscenze. Dimenticano le foglie cadute,
Gli amici!, si fa fatica a scoprirli ancora evanescenti
delle risate infantili, impervie. Sempre nel chiasso, ancora
urlanti pescatori di dolcezze e ammicamenti. Staccano
Gli amici li convochi alle partite, ma dalle tane
portano quei cuori larghi di sollievo: nemmeno
tanto peso, nemmeno sempre netti.
Pensa ad una terra di discese per camminare meglio
e pone di colpo sulle spalle il tabarro della sera
brancola con quell’ancora nel petto fino alla rena.
Ride del vuoto che lo circonda con tanti volti, s’alza
tremando sull’orlo della fuga. E’ un aviatore che cade
sul dorso e giace, scrollando la polvere
dal pallore che lo scolora.
a raccontare alla spiaggia intristita la festa
della luna che si alza, che si alza sui gomiti
in un angolo nuovo. Avverte che le tempie urlano: sei vivo!
senza altra voce che i rimandi della sabbia
al mondo che va avanti; procede rutilando,
s’inebria e scia l’universo come una cometa folle
che ha i polsi in orbite che non rivela.
di naylon grezzo, quasi colore il piombo che l’affonda
nell’orizzonte, pigra, bisognosa. Senza dannarsi
gli occhi trovano i salti dei pesci. A maglie larghe
la venuta di pirati vocianti, quei gabbiani illeciti.
Ma dove sono?, il vento traduce in suono
l’odore disfatto, sventra la spiaggia, vuole esserle interiore.
Lo scheletro della battigia mostra ossi di seppia sparsi
come una pulizia dei morti che si fa ad onde. La cominciano
la loro infinita pulizia di parole.
un promontorio con le coste ineguagliabili di strapiombi. Lui lo recita
ai ginocchi del dio liquido che ha di fronte. Frivoli penitenti
nella navata di sale, nessun pesce esce. In quel seno
la visione è il tempo nel senso di fondo: E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi / fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi, / ma strada, ancora strada,
// e che il cammino è sempre da ricominciare.(*)
voce: Manuela Verbasi
abbia una epidermide incrostata da diversi continenti,
una summa di smottamenti lontani che ha voluto
eroso dagli spazi incessanti, dalla osmosi planetaria.
Vuole che pianga. L’acqua gli rifiuta quel sale. Manifesta
voce: Manuela Verbasi
egocentrico neo del tempo. E ne lancia a diecine
a cento e poi ancora che il braccio duole
della frusta che traccia il colpo, e ricade
il golfo, polmone dell’agosto in corso.
La baia ha le labbra serrate, di cui l’alta in un cielo
terso e vivo di voli, di becchi e di ali parallele
alla sarabanda che strapiomba dalla roccia
dove l’eco non attracca le sue barche già note.
Il suono si tuffa in un salto. Si reclamizza in tal modo
l’arrivo dell’oceano inascoltato.
Scarrozza fino a pesare prigione o sepolcro sui nomi affondati:
quelli che prima di levigare le ossa inseguivano i granchi;
le orme più corte dei piedi, i passi che alzavano disgrazie
come i decolli delle mosche: un balzo ripido
dalla pelle dell’acqua, una corsa sulla sabbia imbevuta
uno schizzo, un gonfiare la vela del riso
col vento entusiasta che non fa pressione.
voce: Manuela Verbasi
Sono fermi i timoni della sera. E’ il momento
voce: Manuela Verbasi
Lo stretto corridoio dei gabbioni fissa l’ala del costone
Da esse, gli intransigenti estraggono un sonno maturo:
E sono viaggi che portano il dubbio delle direzioni
solo nella paura che non appaia all’occhio quell’incertezza
delle palpebre di tenere dietro al respiro. Dormiveglia
l’aria nera inquieta nello scafandro del corpo. La sua
(1) voce: Amara; musica B.Eno.
Crede che lì, in alto, sul costone, risieda l’equilibrio
come ago magnetico, così saprebbe quando
il pensiero cade e come fiorisce davvero un seme. lui è
convinto che se i ricordi fossero davanti, se cioè si potesse
al presente essere dentro ieri, conoscendo ogni memoria
(quasi ancora dovesse accadere) sarebbe olmo
o platano a dirimere i grovigli afosi, terrebbe aperti i cancelli
ne amerebbe i figli, le case di stecchi e saliva
gli leggerebbe le quote quando dalle rotte
planano nel meridione dove il giallo plastico indica
la compatezza del sole. Lui è invece scosso da tensioni
sconta il tremore della disillusione: non è la roccia
di una vetta millenaria, ma sfarina argilla che non tiene
e sono verbi le lame che la modellano.
voce: Manuela Verbasi
Lavare in un colpo la vita è solo della morte.
i grovigli delle visioni, il loro turbinare in vortici simili
a bulloni; la brugola di un buon motivo per cui
disporsi a realizzarle gira a vuoto. Ed il vuoto - quest’angoscia
inattesa e furente - contamina i sensi e li spegne.
Perché all’angoscia ci si oppone singolarmente:
o, è fortuna, con un affetto prepotente. La notte
che s’avvia il pistone della voce. E’ lì che parte una qualsiasi
abluzione con l’unguento del buio ad appiattire urla,
a distrarre le mani nell’esplosione della fine.
E’ davvero una spinta, l’ebbrezza che precede la morte voluta.
Eccomi alla terra, lui avrebbe detto, eccomi
all’impresa di trovare dei trampoli più alti dei piedi.
Qualcosa capace di staccarlo dal fondo
all’arrivo aggrappato al traguardo su in alto; e di lì
osservare ripiegando stanchezze l’affanno degli ultimi
abbattuti per strada. Perché questa è in vita la corsa e questa
la regola: superare schiacciando, senza mai un fiato
ai caduti; e più caduti ci sono e più s’avvicina la gloria. Il ricordo
è fatto di tanti detriti: maggiore il volume, migliore
la raccolta. E il suo sgherro, la sconfitta esiliata dal corpo.
voce: Manuela Verbasi
Quindi, la morte come lavandaia sul greto. Col culo
voce: Mario Calzolaro
(1) voce: Amara; musica B.Eno.
che aspetta morsi da tante ore. La sua volontà ha una frusta
che adesso percuote i bronchi. Si allontana ansimando,
diventa corsa e impugna i profili per disporli meglio,
voce Mario Calzolaro
(1) voce: Amara
Lei, che spegne e riaccende il sole se solo sale ai glicini
nel porto, eppure resta nell’ombra e l’ombra
muta in zaffiro la sua qualità nera. Una disperata protezione.
Una sentinella muta della grotta di tempo
Cerca di trattenere le ossa del capo, puntella con le dita
le tempie, libera le mani quasi stesse recandole
ad un furto. L’ama ancora. La divora. Teorizza, adesso
poi le dà un nome che non ha e se non risponde
o non si gira, è perché lui non pronuncia parola.
voce: Mario Calzolaro
voce: Manuela Verbasi
il bicchiere, la bussola, la padella, l’ora. La certezza ha profili
marciapiedi della casa, per esprimere la fretta.
Per quanto rapidi, adesso, lui non omette gesti:
Vede ancora adesso gli occhi incresciosi,
ah! quegli occhi stretti come accuse,
gli davano visioni lunghe, però sempre più rade.
prima che lui la vedesse sciogliersi i capelli:
neri, proprio neri come un neo di tempesta
nella crosta trasparente della Terra. Quella lei
al limine della porta. In fine è andare, si dice,
e prepara il vaso di ipotesi perché fiorisca
col petto trapassato dalla vendetta dei tonni.
siediti e guarda, perchè stanotte si comincia.
- Blog di ferdigiordano
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