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Venezia, il Bellotto e dintorni

San Giacomo
 

 

Pioggia, ancora pioggia, acqua che scende leggera confondendosi nella laguna. All’orizzonte, un cielo grigio, autunnale, che non lascia presagire nulla di buono.

Incurante del tempo, una babele di persone affolla il corridoio centrale del traghetto, pronta a riversarsi su calli e ponti. Lella osserva i palazzi sul Canal Grande offuscati dalla pioggia.

La temperatura, nonostante il tempo, è mite. Mentre il traghetto scorre, alzo lo sguardo e su un cartello affisso sopra i sedili leggo:

Il Comune di Venezia cerca appartamenti in affitto.

Penso a quelle stanze vuote (sfuggite alla caccia degli americani prima, e dei giapponesi poi), alle crepe che serpeggiano sui loro muri, nel silenzio del tempo, interrotto dai rumori sommessi provenienti dai canali (orbite vuote di sguardi mancati).

Sopravviveranno al loro lento oblío?

 

Ed è sempre Venezia, con la sua assenza di colori che, tra il grigio sfumato e il verde Laguna, ondeggia come una quinta teatrale sul mare.

Le case, numerose palafitte a schiera, si riflettono sulla Laguna, rallegrate dall’umore della gente.

Ed è ancora l’acqua che scende inesorabile dal cielo, che blocca la gola e rallenta i movimenti. Mi ritrovo con una gestualità minima, legata ai passi delle persone che avanzano dinanzi a me, costretto ad intuire e anticipare le loro azioni.

Camminiamo schiacciati tra la folla che ci sovrasta e sospinge. Un giapponese mangia un gelato, mentre l’assolo di un violino lo investe. Osservo l’orchestra che suona tra i tavolini, sposto leggermente lo sguardo e le cupole di S. Marco invadono il mio spazio visivo. È Venezia, lo so, lo sento. Là nelle crepe, dove l’intonaco si sgretola sotto la spinta dello scirocco, nelle fondamenta dove i palazzi lentamente affondano, c’è l’anima di questa città.

Poi la notte incalza e ci avvolge con il suo impalpabile velo di magía. Il paesaggio ammorbidisce e si trasforma. Cessato il caotico brusío della folla, le luci sottraggono spazio alle ombre, frantumandosi in mille riflessi cullati dall’acqua.

Mi perdo tra labirinti reali o immaginari, dove i passi non contano più e i suoni, smorzati dalla marea, si tacitano.

Sotto una pioggia discreta ma costante, tra colonnati e portici deserti, camminiamo. Lella, al mio fianco, si destreggia a scavalcare pozze d’acqua, mentre tra calli e porteghi, echeggia il suono dei nostri passi. Ci perdiamo nel labirinto circolare del tempo. Supero l’assillante proiezione del poi, e mi soffermo sull’istante, in piena sintonia con il lento progredire dei miei passi.

La mistica della pioggia (con il suo ritmico tamburellare) mi accompagna attimo dopo attimo, mentre il suono di una sirena lacera la sera annunciando l’acqua alta.

Ancora acqua sopra altra acqua, come in un eterno ciclo di autogenesi.

 

Saliamo i gradini del museo Correr, qui il Bellotto, pittore settecentesco, con le sue composizioni dalla prospettiva deformata, i piani schiacciati e lo spazio stirato, ci accoglie. Camminiamo tra le sale e mi imbatto di colpo nelle mura di Torino.

Il Bastione verde si proietta lungo una linea di forza che divide in due il dipinto: un’immaginaria diagonale che va perdendosi verso la Val di Susa. Il palazzo Reale ruota la sua facciata e si dispone, come in un magico carosello, di fronte allo stupito osservatore.

Dietro di esso, la cupola del Duomo svetta sulle altre costruzioni, sollevata a forza dal mistico lino che racchiude, custode del volto del Salvatore. Al suo fianco, leggermente inclinato, fa da contrappunto l’antico campanile romanico, mentre d’infilata, le due torri Palatine riflettono al sole la loro corona di merli, simili a fumaioli gemelli di un battello a vapore che lento risale le acque del Mississippi.

Là, al fondo della valle, s’intravede l’innevato profilo del Rocciamelone e in un punto preciso della tela e quindi della città (proprio in corrispondenza a quel pigmento di colore) nel quartiere Campidoglio, dove sorgerà la chiesa di S. Alfonso Maria dé Liguori, verrò battezzato io; ma ciò avverrà solamente due secoli dopo. Al momento, il dipinto racchiude in sé l’ipotetica e potenziale traccia di questo futuribile accadimento.

Sposto lo sguardo sul lato sinistro del dipinto dove, tra le impalcature innalzate contro il bastione, alcuni uomini stanno lavorando, e sul prato, due nobiluomini osservano l’andamento dei lavori. Uno dei due indica con il bastone da passeggio, puntato in avanti, una zona precisa della costruzione.

A quest’immagine si sovrappone quella più famosa di Robert Capa del ’43, dove un pastore siciliano indica (sempre con un bastone puntato in avanti) ad un militare americano accosciato al suo fianco, la via per Palermo. Ecco che il gesto, in qualche misura, avvicina e racchiude a sé le due diverse unità temporali.

Mentre osservo (su un altro dipinto) l’immancabile popolano che soddisfa i suoi bisogni contro un muro, tratto tipico della pittura dello zio del pittore (il Canaletto), mi accorgo che quel rigido stile rappresentativo, della stessa minuzia di un anatomo-patologo, racchiude in sé invenzione e arbitrio, tratti tipici di grande libertà interiore.

 

Ed è nuovamente il tempo a scandire l’attimo presente, in queste giornate affollate di particolari che si sovrappongono, dove l’istante appena trascorso si perde già confuso nel precedente.

Entriamo in campo S. Maurizio e girovaghiamo tra le bancarelle di un locale mercatino. Sfoglio stampe antiche, scelgo una veduta di S. Giacometto, un luogo a Venezia che ci affascina per l’operosa quotidianità della gente. Lì attorno si svolge il tradizionale mercato del pesce.

Tratto l’acquisto della stampa mentre Lella osserva alcune vedute di Venezia, poi il discorso si sposta sul cibo; l’anguilla, la tradizionale anguilla dal gusto delicato e pieno. Commento ciò con la proprietaria della bancarella e mi ritrovo con la stampa nella mano sinistra e un cartoncino con l’indirizzo di un ristorante, nella destra.

Riprendo il cammino, Lella da perfetta speziale, osserva sulla cartina il percorso da seguire mentre io mi affido ai miei passi, che di certo non conducono lontano, ma mi portano a scoprire universi minimi, nascosti.

Camminare è invenzione e i percorsi non sono mai casuali perché lo spazio torna a chiudersi su sé stesso, sempre.

Pranziamo, e davvero l’anguilla è buona, anche se rimango un attimo interdetto sul conto:

Café alla Mira L. 2.12

Guardo la data di quel foglio, 1788. Allora, tutto torna. Mi accorgo che il cursore del tempo si è nuovamente spostato.

Sotto un cielo che continua a manifestare i suoi acquei umori, il treno esce lentamente dalla stazione di S. Lucia. Riapro il libro e riprendo la lettura interrotta, mentre il tempo, vero padrone di questa storia, scorre via lungo i suoi binari.

 

 

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