Pinuccia, voglio dirti di mia madre... | Prosa e racconti | Giuseppina Iannello | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Pinuccia, voglio dirti di mia madre...

**Il presente testo è una narrazione di Salvatore Quasimodo a Giuseppina Iannello (Pinuccia).**
 
Mamma, quell'orologio che in cucina, scandì il tuo tempo e il mio, io lo sentii anche dopo, oltre i confini di quella barriera che ci frapposero.
Ero un ragazzo... Sentivo l'amarezza di mio padre per quell'ambiente che ci teneva in una morsa.
Scoprivo la mia indole, di una sensibilità vulnerabile e reattiva... Perciò, per evitare il peggio, dopo il “Tranquillo” e Assorto desinare, non andavo a cercare i miei coetanei...
Rimanevo i cucina... Con Te.
Qualche volta, ti ho aiutata... Ma mi scansavi sempre. Mi facevi capire che quei lavori, eran dovizie e non fatica. O la fatica te la lessi in fronte, ben altre volte, ma non volevi dirmi...
I miei meriggi furono lunghi, ma non noiosi, di un'amarezza che trovava pace, nei testi scelti dai miei professori... E per fortuna, che la scuola allora, non fu la stessa ch'ebbe a rivelarsi poco in avanti.
Tu madre, mi eri accanto... E sempre presente.
Sentivo lo sguardo silenzioso sulle mie giovani mani e su quei testi importanti che sarebbero stati il mio avvenire... Sì, ma a quale prezzo...
“Perché non dici nulla?” Ma per quel religioso silenzio, che ci rendeva così simili, non osavo farti la domanda.
Mi ricordo di un giorno: stavi molto male ed espressamente, mi hai detto: ”Stasera non mi sento di far le scale... Ho preparato un letto vicino alla stufetta... Dormo vicino a Te.”
“O mamma, sì.... Non devi preoccuparti... Permettimi una volta uno scambio di ruoli; sarai la mia bambina e dormiremo dandoci la mano.
“Turì, che ti succede?”
“Niente, mamma... Pensavo...”
Fu allora che carezzandomi le tempie, mi hai detto: “Stai crescendo. Io, invece... Sono come i vecchi: più il  tempo passa, più si va a ritroso... Non son cresciuta; mi facevo forte, di quella forza ch'ebbe il tuo papà. Ho sopportato; adesso conto i giorni per riunirmi a lui, se Dio vuole. E, tuttavia, io non vorrei lasciare i miei due figli.”
“Mamma, fatevi forza, non ci lasciate...” Mi accorgevo di passare con disinvoltura dal Tu al Voi...
Ti aiutavo a distenderti. Ero a conoscenza dei tuoi malori: senso di pesantezza, capogiri, a volte nausea... Sì che quella sera, volendo simulare qualche celia, con una confidenzialità quasi assurda per me, dissi adagio: “Mammina, non sarà che attendi un fiocco rosa?” Mi rispondevi, senza meraviglia: “Vuoi dire che papà mi ha fatto un dono?”
Ebbi un sobbalzo... “Forse,” pensai le ho dato una speranza che non sussiste.
“Perdonatemi” dissi; è stato il desiderio di farvi sorridere e forse l'inconscio desiderio di avere una sorellina, ma adesso che siamo nella nostra stanza, quella sorella la ritrovo in Te.
“Figlio...” Stringendo la mia mano, mi dicevi: ”Tante cose ti ho detto, solo con il mio silenzio, ma c'è sempre un momento, in cui il pianto di un bimbo, rompe quell'equilibrio che è fatto solo di pensieri.
Allora, mi succede di sentirti... Mi dici: “ È rimasto un po' di pane da intingere nel latte?”
Io so che il pane e il latte sono quelle parole fatte di suono che vi sono mancate. E tu sai che vi amavo e che vi amo più della mia vita.
Io non nacqui malata, ma mi ammalavo presto di quella strana malattia che solo molto dopo, la medicina riusciva a diagnosticare ed inserire nel quadro delle malattie degenerative cardiovascolari. Si era manifestata come una neoplasia valvoculare, ma che si proietta sulle laringi, e a farne le spese era il cuore.
“Figlio, ti dico questo perché non c'è più tempo... Anch'io voglio parlare... Scrivere aiuta... Ho scritto insieme a Te, nelle segrete pagine del cuore... Ma tu sai che la mamma è la bambina che si mantenne per potervi dire...”
“Mamma, state tranquilla, non parlate.” Per quella sera non parlammo; restammo quieti, mano nella mano, con l'intima promessa di risentirci. Ti carezzai la fronte; non era calda. Il cuore aveva battiti  impercettibili; sentivo il tuo respiro e mi sembrava quello di una pianta. Restammo quella notte al chiaro della lampada. Tu avevi gli occhi chiusi e non ti lamentavi.
“Menomale,” mi dissi.
Il dì seguente, Tu stavi meglio, fortunatamente, ma nulla ti era sfuggito di quel che mi avevi detto.
Ti chiesi, nascondendo la mia ansia: “Come hai dormito?” Mi ha risposto: “Meglio, sì molto meglio... Ma non dimentichiamo la promessa di risentirci. Sento che la voce ce la farà, un po' alla volta...”
“Mamma,” ti dissi... “Basta un fil di voce... E quel che conta, è l'essere vicini.” Assentivi.
La sera sopraggiunse, senza essere attesa, perché durante il giorno, Tu, ch'eri stata sempre silenziosa parlavi... Fu come rivederti al tempo di quando eri una fanciulla. Non c'ero... Ma che importa... T'avrei riconosciuta, anche tra mille. E mi veniva in mente una poesia di Garcia Lorca: “Fanciulla, cosa cerchi?”
Mi guardavi compiaciuta, mentre ricomponevo il tuo lettino. Stavi seduta presso la vetrata e mi dicevi: “So che non davi peso a quello che dicevo... Io mi fingevo alla maniera delle donne del Sud, quasi una vecchia, ma che era uno schermo, me ne accorsi un giorno, quando tu ritornato da scuola, mi facevi vedere, con orgoglio i voti riportati. Ti dissi: “Bravo, so che vai bene a scuola e adempi sempre ai tuoi doveri. Svolgeresti per me un compitino?” Annuivi sorridendo... “Allora, scrivi per me, cinque pensieri.” Io li ricordo: “Mamma, anima mia, Tu sei il riflesso dei miei occhi... E ricordo anche gli altri...” Ero commosso. E non volevo che ti affaticassi.
“Portami a letto; ti parlerò domani di quelle cose che non vorrei dire.”
Oggi, voglio parlare del mio unico amore: fu vostro padre.
Mi vide, giovinetta, mentre con noncuranza attraversavo i binari. “Picciridda, che fai?!” Mi disse allarmato, alzando il tono...
Rispondevo: “Scusate, non sapevo... Non si può attraversare?”
Teneramente, venendomi incontro, mi dava la mano... “Ti rendi conto... Il treno avrebbe potuto... E chiuse gli occhi. Non farlo più, prometti?” Gli davo la mano.
“Tesoro, dove vai?” Mi chiese ancora. Nessuno mi aveva mai prima di allora, rivolto una così tenera parola, al primo impatto. Risposi: “Sono quasi arrivata” e gli indicai la casa.
“Da dove vieni?” E mi guardò con aria di mistero... Come se già ci fossimo incontrati. Lo sentii come un angelo e risposi: “Vengo dalla signora che mi insegna a cucire.”
Sentii il suo sguardo buono, quasi compassionevole, tradursi in una timida domanda: “Ti piace?”
“No... Mi avete letto nel pensiero…” “Scusate ancora; ho sentito il vostro sguardo.” Fu tanto il mio imbarazzo per quelle parole appena pronunciate, che la mia borsetta di tela bianca cadeva...
Si chinò e la raccolse; la rimirò un istante, poi mi disse: “Ti chiedo troppo se...” Ma si interruppe, pensando ad un rifiuto. Colsi la timidezza di un uomo determinato e  fu in modo spontaneo che gli dicevo: “Dite; è mio desiderio esprimervi la mia riconoscenza.”
Lo vidi illuminarsi e sorridendo: “Grazie” mi disse. “Fai in modo di pensarmi; questo volevo dirti.”
Ebbi un sussulto e mi tremò la voce: “Certo, vi penso... Forse già da ora.” E diventai di brace.
Allora, egli riprese la borsetta...  “Perché vi confondete, Signorina... Sono un uomo del Sud, ma la mia terra, io la riscopro in te perché ti vidi in altro luogo, forse in altra vita. Come ti chiami?”
“Angelica”, risposi “perché Clotilde è il mio secondo nome. E tu?
Rispose: “Te lo scrivo sulla tela, in memoria del nostro incontro. Ma vedo l'espressione birichina... Dimmi: ti viene in mente il nome?”
“Sorrisi,” sorridemmo... L'abbracciavo......... Sussurrando al suo orecchio: “Salvatore...”.
 

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