Le libertine di Oslo (Vibeke's contest - Il tocco di una dea) | eros | Artemide | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Le libertine di Oslo (Vibeke's contest - Il tocco di una dea)

 

Tutte le principali città della Norvegia hanno almeno un festival metal all’anno di proporzioni medio-grosse. In effetti, la Scandinavia intera potrebbe essere la patria del metal, se non avesse una popolazione così limitata numericamente. Per consolarci, abbiamo un sottogenere esclusivamente dedicato a noi, il viking metal. Del quale, manco a dirlo, sono una fan sfegatata.

Solo ad Oslo, però, si può trovare una serata a cadenza regolare che riunisca tutte le perversioni del genere umano. Una serata nella quale il dolore inferto si mescoli allo sfreno più selvaggio, una serata nella quale i crepitii di corpi che si donano vicendevolmente orgasmi vengano sopraffatti e soggiogati dagli impervi tumulti di bassi, casse e batterie, una serata nella quale le maschere ed i costumi della carne mettano incessantemente in scena la finzione dell’animo umano, una serata nella quale le voci delle proprie divinità musicali avallino e sublimino l’amore fra due ed il fare all’amore fra molteplici.

La chiamano unione delle culture underground. Il fatto è che per unire culture underground, sarebbe d’uopo che ciascuna di esse anelasse all’unione con le altre. Cosa che, puntualmente, non avviene.

Era da parecchi mesi che non c’andavo. Non per mia volontà. A causa delle circostanze della vita.

Una volta perché avevo tirato troppo tardi al lavoro, un’altra volta perché sfibrata dall’azione martellante degli ormoni, un’altra volta ancora per un malanno occorso alla mia gattina, l’ultima invece – la cerimonia di chiusura prima della pausa invernale – a cagione d’un veemente alterco con la mia fidanzata.

Già, la mia fidanzata… Stiamo insieme da tre anni ormai, ed il nostro rapporto va a gonfie vele. La prima cosa che ci confessammo, con una reciprocità disinvolta ed una contemporaneità davvero singolari, fu il nostro libertinaggio. Prima di annunciarglielo, ero partita dal presupposto che una volta tolto il dente, sarebbe scomparso anche il dolore. Dopo la rivelazione, che s’incappa in certi alberi della cuccagna una volta sola nella vita.

In cotanto idillio, siamo completamente tarate nel scegliere i momenti nei quali litigare. Per un motivo o per un altro, sono sempre quelli inappropriati.

In quel marzo dal meteo estremamente volubile, però, m’ero ripromessa che alla cerimonia di riapertura non sarei proprio potuta mancare. Finendo anzitempo il lavoro, anche se ciò avesse significato dell’arretrato da recuperare la settimana successiva. Soverchiando la dirompenza degli ormoni. Accantonando per qualche ora la mia dolce metà.

Non ero l’unica trans che si recava a quell’evento. Una volta m’imbattei in altre tre sorelle. Più frequentemente eravamo in due.

Nonostante il locale fosse gremito all’inverosimile di gente, e stessero suonando i migliori DJ metal della Norvegia, la serata scorreva meno movimentata del previsto. In realtà, era una percezione mia, più che un dato di fatto obbiettivo. Il mio rapporto con la musica in generale era franato rovinosamente un’altra volta. Il metal, essendo il mio genere preferito, s’era di conseguenza sbriciolato come il più frangibile dei cristalli.

Iron Maiden, Metallica, Carcass, Slayer, Celtic Frost, Blind Guardian, My Dying Bride e tutti gli altri che a mano a mano venivano passati dai DJ, m’annoiavano terribilmente. Solo gli Amon Amarth, con le loro eco norrene, mi trasmettevano qualcosa.  

Dopo un’ora e mezza d’insulso errare, capitò l’imprevisto che stravolse l’andamento degli eventi. Caracollavo senza arte né parte nel corridoio che conduce all’uscita con un bicchierino d’assenzio incastonato fra le dita sudaticce, quando intravidi colei che l’anno prima distribuiva i liquorini in un angolo del bancone del bar. Stava conversando, in assoluta allegria, con due ragazzi che erano assolutamente calamitati dalla sua persona, venerandola con gli occhi come fosse una divinità.

La fulminai all’istante con lo sguardo. La stagione precedente solevo fermarmi nel suo spazietto, farmi imbonire dalle sue moine senza comprare alcunché e poi passare dei quarti d’ora abbondanti a chiacchierare e folleggiare con lei. La tizia, per contraccambiare la mia spilorceria, di tanto in tanto imbracciava il frustino di sottecchi e roteava il polso sotto il bancone in modo da trafiggere la zona lombare.

La ragazza restò immobilizzata, facendo intendere alla suadente compagnia maschile, con un breve cenno delle mani, che poteva ritenersi accomiatata. M’avvicinai e la salutai come se niente fosse. A serata abbondantemente conclusa m’avvidi del clamoroso scambio di persona di cui m’ero resa protagonista. Lei aveva delle fattezze identiche a quelle della donna dei liquorini. Ma era più bassa. Ergo, non era lei.

Passammo immediatamente le braccia una sul dorso dell’altra. Mi salutò, e commise subito l’errore di rivolgersi a me al maschile. La corressi, ed introiettò in un battibaleno il cambiamento. La corressi, esibendo alla sua vista ed al suo tatto ciò che in quel momento era il marchio più fecondo della mia femminilità: il seno. Tanto proporzionato quanto prorompente.

La tipa premette un po’ sulle mie spalle, per far sì che i nostri corpi s’appropinquassero ulteriormente. Il corpo umano, com’è risaputo, è un conduttore di calore. Noi, in quel momento, n’eravamo la prova tangibile.

Con le labbra fece per avvicinarsi al mio orecchio e pronunziare il suo nome. Poi il suo viso svoltò repentinamente, ed assalì. Le mie labbra, secche e screpolate, non poterono che sentirsi lenite e lusingate dalla fluidità delle sue, perfettamente curate ed umettate.

E poi affondò. Una volta. Una seconda. Un’altra ed un’altra ancora. Raggiungemmo in breve l’armonia dei movimenti. La più sensuale delle apnee veniva interrotta di rado da alcune persone a cui intralciavamo il passaggio nel corridoio. Le nostre bocche si disgiungevano un istante, giusto il tempo per riprendere fiato, e tornavano a congiungersi, ancora più bramose una dell’altra. Risaltava, nell’oscurità, l’antitesi fra la nostra passione e la frigidità, per non dire l’anemia dei sensi, delle persone che ci circondavano. Me lo fece notare con un sussurro soave, e poi ricominciò ad inondare le mie cavità orali.

Le carme delle nostre lingue durarono una mezz’ora buona. Un desiderio ormai indicibile ci colse, e ci dirigemmo incollate come due gemelle siamesi verso la darkroom.

"Tu sei la perfezione! Tu hai tutto!" Le sue parole rimbombavano nella mia anima, già effigiate per l’eternità.

Quando entrammo, i separé erano tutti occupati. Non feci in tempo a dispiacermene, che la mia partner aveva già provveduto ad abbassare i miei pantaloni in PVC. E mentre, genuflessa, con la lingua battezzava i testicoli e la prostata, con le mani aveva trovato la maniera di insinuarsi tra i recessi del reggiseno. Alla prima strizzata di capezzoli, gemetti. Alla seconda, impazzii. Alla terza, ebbi uno spasmo incontrollato. Se avesse continuato così, il mio orgasmo sarebbe stato tanto estemporaneo quanto inaspettato. Fortunatamente, la sua saggezza ebbe il sopravvento sulle voglie irrefrenabili del mio tempio carnale.

Si liberò il divanetto d’un separé, lo occupammo lestamente e piombammo su di esso a peso morto. Un secondo dopo, era a cavalcioni su di me. Continuò indefessa a titillare i miei capezzoli fra le sue dita, pungolando ulteriormente la mia fregola. Nel suo incedere indaffarato, s’avvicinò al mio muso contratto in smorfie di gaudio e chiese il mio nome con un lieve bisbiglio.

“Mi chiamo Reidun!” abbozzai con un sorriso.

“Che bel nome! Io Pernille! Fa caldo qui, perché non usciamo? Sto sudando come una scrofa!”

“Fuori non si gira, tesoro! E poi qui si sta così bene…” Non feci in tempo a concludere la frase, che già avevo assecondato i miei istinti di vampira. La sua fisionomia robusta aveva da offrire parecchia carne alle mie zanne aguzze. M’offrii il menù completo.

“No dai veramente fa caldo, usciamo!" Pernille mi trascinò fuori, strattonandomi per un braccio. L’uscita era preclusa dalla calca di persone che voleva entrare nella darkroom. Restammo a metà strada, nello spiazzo centrale in cui la prima volta m’aveva abbassato i pantaloni. Il caldo del separé, e l’inespugnabilità dell’uscita, c’avevano intrappolate lì. E lì continuammo ciò che avevamo sospeso poc’anzi. Con un movimento folgorante delle braccia, mi sfilò il reggiseno dalla parte superiore, e ricominciò a leccare ingordamente i miei capezzoli. La mia prolattina, in segno di ringraziamento, balzò a livelli che avrebbero fatto invidia ad una giumenta. Per un attimo rimpiansi il fatto che dalle mie estremità pettorali non potesse zampillare nulla. L’avrei sommersa più che volentieri.

Quattro uomini c’accerchiarono, pensando d’avere finalmente trovato le cagne in calore che avrebbero compiaciuto i loro più biechi istinti. Mentre Pernille continuava a sollazzarsi col mio inguine ed il mio ombelico, io li respinsi ad uno ad uno. Non potei sfuggire solo ad un morso galeotto impresso sulla cervice. Pernille allora s’alzò, sorrise ai quattro uomini ed affermò solennemente: “Voi non servite! Lei ha già tutto!"

M’accarezzò ancora una volta il seno, e tornammo al nostro divanetto prediletto. Prese finalmente il mio cazzo fra le sue mani, dopo aver fatto sì che praticamente tutte le parti del suo corpo vi si fossero strusciate contro. A quel punto, abbassai le spalline della sua canottierina super attillata, e presi a mia volta a leccarle i capezzoli.

"Mi… mi fai impazzire… io non posso… non posso proprio!" urlò mentre progressivamente estasiava.

Non le credetti, e continuai alacremente a conficcare i miei colpi. Poi la sollevai di peso, e feci per prenderla.

"No! No… basta!"

"Che c’è?" chiesi stizzita, sprofondando scorata sul divanetto.

"Io non t'ho detto una cosa!"

"Cosa?"

"Io non sono libera!"

Non riuscii a proferire parola. Non potei far altro che guardarla con espressione sgomenta. Pernille si chinò su di me, e disse con placidità quasi beffarda, mentre avevo avvolto il mio viso nei suoi lunghi capelli corvini, come se avessi voluto morirci dentro: "Sono di Stavanger, fra un po’ devo tornare a casa perché domani mi sposo. Questo è un addio al nubilato. Mi fai impazzire, sinceramente. Davvero, è per questo che non posso continuare. E’ stato bellissimo, era da anni che sognavo di farlo con una trans!"

S’alzò. M’alzai. Non potevo lasciarla con quelle parole. Non potevo lasciarla con delle parole.

La baciai, e riprendemmo a darci piacere. Dopo una decina di minuti girò i tacchi e si diresse verso la soglia dell’ingresso della darkroom, fra l’affranto e l’ineluttabile. Ebbi bisogno di tendere un braccio al muro per sorreggermi. La mia serata era finita. Appena recuperato un po’ di vigore, mi diressi mestamente all’uscita del locale. Una folata di vento leggera, abbacchiata quasi quanto me, m’accompagnò fino all’auto.

 

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