Scritto da © matris - Sab, 07/05/2011 - 22:03
Avevamo aspettato a lungo prima di muoverci all’atto dello sparo in aria di una pistola da starter, era il via alla prima corsa, quella che avrebbe sancito il vincitore dell’anno.
La chiamavano la corsa dei matti, per la sua difficoltà forse, ma forse anche per la tipologia di persone che la contornavano. Tutto ciò che era selvaggiamente folle, lo si poteva vivere in questa corsa, una specie di sfida al destino, una decisiva lotta per arrivare primi al traguardo.
Aspettavo solitario il momento per salire il mio skate board, la mia tavola di legno duro modificata per starsene seduti sopra, per poi lanciarsi a velocità folle giù per la lunga discesa che portava all’arrivo. Ero alla mia prima corsa, ma non si poteva non esserlo, la corsa era così rischiosa da non lasciare spazio a più di due o tre tentativi nel corso di una vita.
Come la vita stessa insegna la pace si trova sempre dopo la tempesta, saliranno le urla anche fino al cielo, saliranno le sofferenze anche fino alle porte del mondo ma sempre per fortuna ci sarà il momento del ritorno alla calma alla monotonia del silenzioso del vivere certi di quello che accadrà domani. La folle corsa avrebbe dovuto sancire il vincitore, ma non sempre convenzionalmente alle regole ci sarebbe stato un vincitore reale, forse sarebbe meglio accendere un cero al credo per averne la consapevolezza per rischiarare la mente alla luce fioca mossa dal vento del destino.
Il vento che accarezzando i capelli precedeva il canto dei motori con i suoi fumosi mefitici scarichi, ammorbava il naso e infastidiva la calma apparente, ad attendere il fato e la sfida ai sensi ed alla sorte che si alimentava della paura celata in ognuno di noi tanto da preoccupare e palesare un fremito nervoso sortire delle labbra socchiuse avvolte in un sorriso tirato. Gli occhi stregati fissavano imperterriti la scia che i colorati ferrosi rantolanti vettori, disegnavano lungo la via che si snodava di sotto come un lunghissimo dorso di drago, e i balenii delle luci riflessi dagli specchietti retrovisori, avevano il potere di cancellare l’insieme della visione e per un attimo reiterato a lungo, assentarti, fino a farti scendere le lacrime dal viso, tanto l’illusione di quella strada faceva apparire spente le innumerevoli motivazioni che ci spingevano a verdeggiare con la mente il futuro della nostra esistenza. Superate le manifestazioni di paura ci si doveva per forza risvegliare dalla profonda concentrazione preparatoria alla decisa e intensa follia che sarebbe susseguita con il salpare le ancore per questa nuova avventura. Le motivazioni non sarebbero mai troppe per dirsi “ce la puoi fare, è solo una questione di pochi minuti e poi l’arrivo”, non sarebbe solo un arrivo, ma la coronazione di un piccolo grande sogno, quel sogno che non si poteva toccare con mano se non attraverso il superamento di questa prova.
La fine di tutto appariva davanti ai nostri occhi increduli di tanta semplice prassi, alla fine di tutto rimaniamo soli con noi stessi a predirci il futuro, a comprimerci in un abbraccio metaforico a stringerci da soli la mano con l’altra mano, ad impattare un … avanti è ora di farla finita, è ora di svegliare il cane che dorme, quel cane che non conosciamo nemmeno per nome e a cui rivolgiamo il nostro coraggio come per una predeterminazione, ed almeno un po ci sentiamo persi fottuti e impossibilitati a stringerci al petto della nostra madre, come vorremo tornare alla insicurezza di quell’infanzia rivelatrice dell’aiuto materno, come vorremo abbandonarci ad occhi chiusi al tepore consolatorio di quelle grandi braccia che ci spingono a non pensare più a niente, che invocano l’intervento protettivo del sangue materno del cuore che lentamente batte e pulsa coprendo ogni rumore esterno invadendoci i sensi fino a poter toccare il cielo con un sospiro.
Non era un sogno ma il sogno non sarebbe tardato ad arrivare a mescolare le carte in tavola a rendere le sicurezze vane metafore di vita, a spingerci a chiederci perché succede questo, perché non siamo preparati a predisporre le nostre sicurezze senza che siano ad una ad una annientate dal frivolo significato a cui le reggiamo. Tutto si stempera tutto si ovatta e si rende infinitamente lungo e distorto senza una logica ordinata, almeno per quanto la nostra visione sa scindere al pari di una grossa lama che affetta con regolarità una manciata di foglie di prezzemolo, il verde della linfa che scivola fuori dall’involucro scardinato dal tutto cellulare che come lava sortita da un vulcano invade le nostre mani, i liquidi come marosi infranti sugli scogli al pari di una tempesta che squarcia le vele di un veliero alla deriva minacciosamente in vista della costa, che a questo punto appare demolitrice, esecutrice di una catastrofica condanna a morte.
A volte si cerca la morte attraverso una gara per la vita, una gara che attanaglia i pensieri e gli occhi di chi la guarda di chi vorrebbe esserne protagonista ed insperatamente si sente estromesso dal viverla in prima persona, dal gusto e dal privilegio di poterne assaporare l’adrenalina, il sale della sfida alla morte.
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