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blog di LePoèteClochard

La maledizione della camera del Fraz (atto IV) -estratto dal mio romanzo, capitolo 20

Cloe ha appena finito di lavare via la granita di vetro e sangue dal pavimento, adesso dovrà lavar via la colpa. Il suo problema –dice Ummerda –è la cattiva influenza di D. Il suo problema –dice D. –è che lei ragiona con la fica. Il problema di D. –dice lei –è che lui ragiona con il cazzo. Un evento che accade è come un dado. Offre una faccia diversa ad ogni coppia d’occhi. La casa dev’essere pulita entro le 6, perché oggi attendiamo pretendenti alla camera del Fraz. Non possiamo permetterci che un’altra persona se la dia a gambe dopo 24 ore. La stanza del Fraz è infestata. È un periodo no, questo. Fuori il tossico, il malavitoso, la ragazzina punkettona pane e salame. È come se la camera del Fraz pensasse, come se fosse dotata di un’anima e aspettasse invano il ritorno del suo illustre inquilino. Si è aperto a casa un periodo giacobino.

La cucina deve rimanere pulita fino a stasera. Dobbiamo piazzare la stanza a qualcuno.

Ci ha lasciati anche Rizlo.  Rizlo, l’uomo che mi aveva fatto entrare a casapace. L’uomo che mi somministrava negroni e vodka lemon ai tempi in cui stavo con la donna-Druido e litigavamo e bevevamo. Litigavamo e bevevamo. Ere fa. La partenza di Rizlo era annunciata. Ormai non si vedeva più da mesi. Impegnato col tirocinio in un’altra città, dopo aver rotto con Cate, con Palermo, con tutti, ha ufficializzato il suo addio. Ero rimasto l’unico della vecchia guardia. Il satrapo di casapace, e in quanto tale mi toccava la stanza dell’anziano: quella bellissima nel soppalco, con zona giorno nell’anticamera, zona notte e verandina privata per ottime pecorine con vista cattedrale. Ora che ho questa stanza, posso accarezzare l’illusione di essere qualche metro in più vicino al sole. Il soppalco anni fa era il regno di Pinnie e Rizlo, amici dai tempi del liceo. Motori di casapace e polmoni rivestiti in THC. Mi sento solo. Ho una camera bellissima. Ho perso i miei amici. Ho una camera bellissima. Devo darmi una mossa con il dottorato. Ho una camera bellissima. Non ho un cazzo da mangiare per stasera. Ho una camera bellissima.

Freddo-notte

Nessuno ha il tempo di congelare il suono
ed è baccano sulla porta lucida
del silenzio di questo freddo-notte

Cancella tutti gli alibi e quest'effetto fata
esplodi, o sole denso dalle mani sporche
e facci fuori tutti, senza distinzioni
siamo i tuoi inquilini peggiori, facci fuori.

Il vuoto si confonde con le menti,
i baci, i corpi, il peso del petrolio
sul cielo ormai appassito
e le sue chiazze chimiche.

Seduti sulle pareti lisce
di quest'alambicco
scivoliamo nella tua bocca,
freddo-notte.

Le ossa trasuderanno il vino
non ancora smaltito
e sentirò i tacchi spezzati
delle donne che ho tradito.

Mia signora

Ehi mia signora
che spacci droghe e sogni
ti cerco ancora
nudo al tuo mercato

Alla palestra della disobbedienza
la vanità è riscossa
ho visto donne piangere d'amore
qualcuna un po' più stolta
per delle scarpe nuove
invece tu, rannicchiata e scalza,
piangevi i morti di questa sciocca danza.

tra le tue mani baci appallottolati
che non arrivano a fine mese
e passi incerti
e un letto incerto

ehi mia signora
dea metropolitana
bellezza sporca
pozzanghera gitana
di libertà

Hai visto uomini diventare vecchi
neanche trent'anni
ma già scavati e stanchi

e luci accese sugli occhi di chi soffre
e calare il buio su chi vivere amava.

Nello sfavillio di lacrime fecondate dal sole
il plotone d'esecuzione si chiama intolleranza
e la luce che bacia coltelli e pistole
quasi ti fa amare quel metallo che ti uccide.

La tua colpa è la loro discolpa
al mercato dei vinti c'è sempre chi compra
disperazione. Disperazione.

Signora Morte,
padrona di ogni tempo
e di nessun cuore,
di nessun cuore.

Cecile

Cap. 10- Cecile

Treno delle otto e trenta da Palermo. Solito etching razzista del solito controllore merdoso. Biondo, alto, occhialini da idiota, sguardo da pesce lesso. Un’uniforme verde insignificante che, evidentemente, gli conferisce superpoteri da sceriffo. Non fiata mai ma, quando si trova al cospetto di un extracomunitario, fa la voce grossa e cerca ogni scusa per incularselo. Treno delle otto e trenta. Due ragazzi marocchini sono su una panchina, oltre la linea gialla. Il borgheziofilo li insulta e chiede loro preventivamente il  biglietto. Il più giovane ce l’ha, ma il borgheziofilo non si arrende: la scritta è sbiadita, si intuisce la data di oggi, ma non si legge la stazione di partenza. Cazzo! Siamo a Palermo ed è il capolinea.

CONVERSE E COINTREAU

Il cielo abbottonava il suo cappotto grigio
mentre il bouquet di diamanti della notte
diventava l'esca per mille amanti
più ghiotti di noi di buio e sortilegi.
Le bugie danzavano su tavole e velluto
e noi salivamo a fatica gli scalini
e le parole avevano il peso di un revolver.
Non ebbi mai il coraggio di puntarlo.
Ed ero stanco di ricamare chiodi rossi
su quella luna macchiata di Negroni.
Non smisi un attimo di fissare
le mie converse sporche e logore
mentre tu bevevi il tuo Cointreau.
Sentimmo il peso delle nostre spalle
baciammo il gusto di albe con le rughe.
Mi sento cieco quando non mi guardi
mi sento sordo quando non mi parli
mi sento inutile quando non sorridi.
 
 
[è il testo di una mia canzone, che definirei "minimal ballad", disponibile on line:
http://www.youtube.com/watch?v=FCGNaZ4BJa0]

Giorni di festa

Voglio un tuo fremito
un tuo sogno
un gemito

dipingimi il tuo corpo
sul fondo dei miei occhi
e sedimenterà
come sabbia che graffia l'anima
e regala un bouquet di memoria
da annusare nei giorni distanti

E il sole pazzo
ha nelle tasche il mondo
e strade ubriache di occhi
del tuo stesso colore
e notti in cui bere la pioggia
dalle lingue avvinghiate.

voglio un tuo fremito
un sussulto
un gemito

I giorni di festa
su rotaie di imbarazzo
corrono violentando la noia
e ho troppo tempo per me
troppo tempo hai per te
nessun tempo per noi.

Nei gorghi dello zero

Ed era un caos così ordinato
da annientarmi in un minuto
e fu il terrore del normale
tutto ciò per cui sbavai
Stiracchiato e senza volto
nei gorghi dello zero.
Niente si salva lassù nella nebbia
solo piaceri di venti secondi.
Sorridevo per ogni sconfitta
sgretolandomi poco per volta
e arreso ai tuoi rintocchi
anche l'alba fu una beffa
nel suo zampillare di rosso
mentre io tremando avevo
sogni più grandi delle mie tasche
e tanta sabbia nelle mie scarpe.
E i fiori e i lucci non hanno peso
nessuno crede alla morte il pomeriggio
e se fummo stolti a volere la notte
fu un suicidio invocarla ancora.
Nella stagione della rivolta
battelli di carta prendono il largo
e i tuoi sospiri -note scomposte-
se uniti ai miei divengono musica
e non serve pesare le proprie scelte
perché tutto si svuota e tutto si riempie
e le mie lacrime non bagnano più
le mie lacrime non bagnano più.

Strada

La religione è una droga
l'integralismo un'overdose.
La libertà è un peyote:
tre piogge per marcire
Senilità non è curare gli affanni
ma abituarsi alle vecchie manette.
Disinnescati i cucchiai e le stelle
come bulimici vomiteremo
l'ansia e la noia davanti allo specchio.
Riprendiamoci le nostre scelte
disarmiamo i fucili dei capi
diluiamo il dolore in boccali
che carichiamo di troppa importanza
Spaventiamoci di un nuovo sorriso
produzione seriale di inganni.
Vedrai un esercito disobbediente
e non avrà un capo e nessun subalterno.

Sono solo anche quando mi parli
e ho i vestiti zuppi di pioggia
e se stanotte mi offri rifugio
sotto il tuo tetto o tra le tue cosce
domani sarò nuovamente
un Gesù di plastica nel cassonetto.
Nei miei passi la sola salvezza
non conta dove, ma importa farlo:
dal mio balcone
l'alba
è sempre uguale.

MAQUEDA

A bordo delle mie scarpe
battendo la notte
e quel buio scuoiato
da fin troppe stelle.

Venditori di seta inquinata
da moderne veneri da marciapiede
mescolati ai miei passi
da mendicante di quiete.

Maqueda vecchia, troppo vecchia
per ingoiarmi nel suo asfalto
e procurarmi la mescalina
mentre gorgogliano le ultime piogge

E poi c'è l'altra
con quei suoi occhi di chetamina
e una gonna viola di velluto e troppe spille
mentre mi bacia, mi fredda e mi masturba
e non conosco ancora la sua voce.

Lei ha un boccale, io no
Lei ha un sorriso, io no
Lei ha un coltello, io no
Lei ha un motivo, io no

Il telefonino e la siringa

Siamo alla stazione, io e Rizlo. Siamo arrivati a Palermo con la solita mezzora di ritardo, mi chiedo che differenza ci sia tra Trenitalia e la merda dei cani che schiviamo coi nostri trolley. Passiamo in mezzo alla gente in coda per i biglietti. Rizlo rolla una sigaretta mentre cammina ciondolando in prossimità della biglietteria. Giochicchia con l’accendino, quando gli si avvicina un uomo di età imprecisata: dai 30 ai 55. Gli chiede qualche soldo perché deve partire. Destinazione: Milano. Rizlo caccia la mano nella tasca destra ed estrae una moneta da 2 euro. Gliela porge e ha gli occhi di chi ha fatto l’azione migliore del mondo. Si vede che si sente buono. Rizlo è un buono. Fissiamo il collo avvizzito e bitorzoluto dell’accattone. Lo liquidiamo alla svelta e procediamo a gran passi per andare a bere qualcosa. Un bell’aperitivo è quello che ti fa scrollare via di dosso la frustrazione di dover viaggiare in treno in Sicilia. Mi parlano del ponte sullo stretto e delle centrali nucleari, quei balordi. Quei venditori di sogni, quei funamboli feticisti della poltrona.
Passiamo dalla taverna e subito mi si fa incontro un volto semiconosciuto. Capelli lisci castano chiari, occhi celesti. Ci dà due cassette-sedie. Ci fa segno di accomodarci. Poi mi fissa con uno strano sorriso a metà tra l’ebete e lo sballato. Rompo il ghiaccio:
“Studi?”
“Io studio me stesso. Egologia.”
“Bene”
“Beh, sai, la burocrazia universitaria non mi piace. Finora ho dato una materia in ogni facoltà in cui mi sono iscritto. Ne ho cambiate cinque. Alla fine mi sono detto: mi iscriverò alla mia facoltà. Nella mia testa”
“E ora cosa studi?”
“No, poi ho lasciato stare l’università e mi sono messo a lavorare”
“Ah, capisco. E che lavoro fai?” Leggi tutto »

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