La luce spenta di un piccolo diamante
Non sapevo che il nero profondo del buio potesse accecare come un lampo improvviso nella notte. Eppure brancolo nel buio accecante del profondo dell’anima sperando di ritrovare il filo rosso che mi riporti alla luce naturale, allo splendore del rosso acceso del mio cuore. Sprofondato nel nero assoluto anelo la gioia dei colori della poesia. Piccolo, iridescente diamante sfaccettato, racchiuso nella mia mano che da tempo ha spento i suoi meravigliosi riflessi. Ti metterò lì, incastonato, vicino al cuore. I suoi battiti ti faranno rivivere, tornerai a regalarmi l’iride dei tuoi colori.
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Il futuro era ieri
Hai fatto un lungo cammino per arrivare sin qui.
Hai sbagliato molte volte la strada, perso nei meandri di un’incosciente apatia.
Ora che sei qui, davanti alla porta, il cuore sbianca, perdi coraggio.
Forza, varca quella soglia, un paio d’ali ti attendono ormai da troppo tempo.
Indossale ora che la notte ti protegge dal calore del sole, e raggiungimi qui, sulla tua nuvola.
Non temere, ti sosterranno, sono abituate a traghettare anime irrequiete.
Non voltarti, il passato è lastricato delle buone intenzioni disattese per ignavia.
Apri quella porta, indossa le ali e spicca il volo, ma svelto!
Il futuro era ieri.
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Ora sì...
Ascolto un ciottolo accidentalmente colpito rimbalzare con archi diseguali sull’acciottolato della strada che costeggia il molo. La luce fredda della luna rischiara il bianco cemento della panchina che algida mi invita. Accetto la sfida e mi sorprendo seduto mentre osservo i cerchi concentrici che il sasso forma sprofondando nel nero liquido del porto. Un gabbiano nottambulo mi sorvola lanciando il suo grido distrattamente. Così sotto un lampione, seduto su una fredda panchina di una fredda notte di inverno, ascolto i miei sensi acuirsi e la calma appropriarsi del mio corpo. Ora sì, come vorrei una sigaretta, ora.
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Trattativa sindacale
Guardo con apprensione la folla dei pensieri affastellati all’ingresso dell’anima. La porta chiusa nega l’ingresso a qualsivoglia disturbatore. Adesso sono lì, che premono sulle dita cercando di scoprire quale meccanismo recondito attivare per forzarne l’inezia. Eppure il cuore vorrebbe, sorretto da un amore indicibile. Da lassù, dal mio rifugio, osservo con disincanto l’agitarsi scomposto dei manifestanti e disapprovo questo sciopero non autorizzato. Mi angustia il senso di abbandono e di solitudine interiore che da un po’ di tempo mi pervade,anche se cerco con distacco di porvi rimedio. Forse dovrei scendere dalla nuvola ed affrontarmi. Lo farò, mi siederò al tavolo delle trattative e firmerò l’accordo. Finalmente.
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Indecisione
forse dovrei dirti che ti amo,
ma non ne sono sicuro
forse ho ancora qualcosa da darti,
ma non ne ho troppa voglia
forse se quella volta…forse,
ma è passato tanto tempo
non mi ricordo più…forse…
ma tu chi sei?
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Ad una piccola poesia irrequieta
povera piccola, senza ali per volare
nata settimina con grande difficoltà
ora nessuno ti dona un po’ d’amore
nessuno ti capisce questa è la verità
senza più timori, ricusa lo sconforto
lacrime non servono, usa indifferenza
piccolo vascello giunto in questo porto
del mare superando ogni turbolenza
se non sei amata, non pietire amore
spiega ora al vento le tue piccole vele
altri porti attendono chi sa cos’è il dolore
lì troverai rifugio dalle troppe ragnatele
io non ti seguirò, ti guarderò andare
felice fino in fondo di averti dato fiato
nonostante tutto so ancora navigare
ma in questo porto l’ancora ho gettato
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Quella sera, a Venezia
Ora sono qui, seduto su questa sedia stile Luigi XVI, in questo salotto dove respiro Venezia e dove tutto ciò che mi circonda me la ricorda e descrive. Sono qui, arrivato buon ultimo in punta di piedi per non recare disturbo alcuno, che mi guardo attorno e cerco di trovare una posizione meno scomoda sulla sedia. Non sono abituato evidentemente. La tazzina con il caffè che gentilmente mi è stato offerto al mio arrivo ora viene rigirata pigramente tra le dita, il caffè freddo non l’ho mai amato, è una vera schifezza. Giro lo sguardo intorno a me e vedo molte facce note, ma anche molti nuovi convenuti. Manco da tempo, si vede. Le conversazioni si intrecciano, colgo mozziconi di frasi e di argomenti. Il fastidio per la posizione innaturale assunta sulla sedia sta viepiù crescendo. Raccolgo un sorriso complice dalla padrona di casa che sta farfalleggiando impegnata tra i nuovi ospiti. Non ho profferto una parola, finora. Dopo aver cercato inutilmente un tavolino appoggio delicatamente la tazzina colma della schifezza nera gelata sul tappeto e mi alzo.
Sfoderando uno dei miei migliori sorrisi idioti saluto gli astanti con un cenno del capo, inarcando un sopracciglio e mi avvio in punta di piedi, come sempre, verso l’uscita. Sulla sedia una rosa rossa fiammeggia il mio grazie alla padrona di casa. Chiudo la porta alle mie spalle, senza far rumore. Mi accolgono le note del Rondò Veneziano provenienti da chissà dove. Ah, Venexia…
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Lenzuola nere di seta nera
una lama di luce sghemba riflette
il bianco marmoreo del tuo corpo
mentre ti rotoli nel nero del giaciglio
pigramente spettino anelli di fumo
il sopore mi assale, membra ottuse
scivolano lente nel profondo del nero
lenzuola come nere ali di pipistrello
dirigono la mia discesa nel fondo
ondeggia la barca, è troppo il fardello
Caronte pretende doppia mercede
il viaggio è terminato il ritorno è dolore
scorre sul nero la mano incontro al nulla
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Perché?
Perché?
corpi straziati da mille parole
giacciono riversi sul ciglio della strada
passo scostando coi piedi le ferite
di chi ha venduto l’anima al potere
respiri affannosi di donne discinte
rincorse nel buio da occhi indiscreti
descrivono atterrite lo strazio perenne
del mondo che ha perso la propria ragione
guardo e non vedo la morte che attende
chi nella vita ha dato la morte
il buio profondo dell’anima insegue la luce
sperando il ritorno di un altro mattino
vivo?
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Quel filo sottile
quella volta ho camminato in bilico
su quel filo sottile che ci separa dall’alienazione
sospeso in una specie di limbo indolore e incolore
costretto dalla vita a percorrere un tragitto inaspettato
ho misurato la distanza che c’è tra la follia e la ragione
i miei occhi hanno visto ciò che altri occhi disconoscono
lo strazio infinito di uomini persi o presi in cupi pensieri
bianchi stanzoni ormai lerci e maleodoranti di piscio
ectoplasmi di esseri trascinanti fardelli sovrumani
oppure sguardi sereni anelanti cieli diversi
che ti gelavano l’anima chiedendoti
ragione di un filo spezzato
(immagine da web)
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