Scritto da © Winston - Gio, 18/04/2013 - 15:05
Joao Balthazar si era appena alzato, aveva appoggiato l’estremità inferiore fino a metà pianta sul tappetino ed ora seduto sulla sponda del letto strofinandosi gli occhi con una caparbietà degna di miglior causa, fissava la porta falso stile veneziano chiedendosi da che parte del corridoio andare una volta varcata la soglia della camera.
Andare a sinistra avrebbe significato decidere per il cucinotto dove avrebbe dovuto svitare e lavare frettolosamente sotto il rubinetto la caffettiera moca lasciata nel lavandino la sera, riempirne fino a livello della valvola il bollitore, passare anche il filtro sotto il getto, asciugarlo, reperire in qualche sportello il sacchetto di macinato, mettere i cucchiaini di caffè necessari fino a raggiungere ma non superare l’orlo ed avvitare il raccoglitore, che per Joao non necessitava se non di tanto in tanto di alcuna lavata: un lavoraccio visto che il suo corpo già richiedeva impellentemente di dirigersi sulla destra.
Il suo corpo!
Quel corpo diviso tra bene e male, ottusità e genialità, puro senso estetico della bellezza e rozzezza terrena, coraggio smisurato e paure. Tra estrema generosità e miserabili grettezze.
Spinto irrimedialmente dalla necessità Joao si alzò in piedi e si diresse, una volta di fronte al corridoio, verso il bagno sulla destra.
Aprì in tutta fretta la porta, metà in legno e la parte superiore in vetro zigrinato, e la richiuse dietro di se. Si calò le mutande e seduto finalmente sulla ciambella in plastica bianca di una famosa ditta italiana produttrice di suppellettili igieniche, si lasciò andare.
Gli seccava moltissimo non aver potuto disporre di quei sette, otto minuti necessari a far sgorgare il caffè in quanto amava, quasi a non poterne fare a meno, quel duplice senso di svuotamento e contemporaneo riempimento, quel bollore improvviso che in opposizione al freddo delle viscere vuotate tornava, al pari di una frustata alle stesse, a farlo sentire vivo.
Così preso alzò la mano destra portandosela alle labbra, accorgendosi solo in quel momento che le dita stringevano solo aria.
Deluso, annusò una seconda volta, annusò una terza e si decise finalmente a voltarsi all’indietro verso la catenella che rasentava il muro alle sue spalle.
Un impianto idraulico vetusto, la vasca esterna dell’acqua lassù quasi attaccata al soffitto il cui galleggiante s’incantava almeno una volta su due, il tubo che scendeva alla tazza, in plastica rinfrescata almeno una decina di volte, le pareti fumèè, perché Joao aveva il vizio di fumare al chiuso e quella era la sua stanza segreta, scrostate alla base.
Joao vide tutto questo e maledisse la madre baronessa decaduta Von Fultzen Cruz Gonzales Magda Esther, cognome acquisito dal secondo marito. Ex cantante, ex di tutto e di tutti, vedova e divorziata tre volte, dopo il secondo matrimonio, quello da cui era nato Joao, altro non aveva saputo raccogliere nella propria vita che giovani, giovanissimi amanti dal mondo dei compositori di fado, e chitarre di Lisboa Antigua.
L’ultimo di questi, un cameriere genovese lì trapiantato, un certo Agostino, che quel nome aveva velocemente trasformato in Agostinho, prima che la donna tirasse le cuoia in un attacco che un medico aveva avuto la compiacenza di definire infartico, l’aveva convinta a cedere quel che rimaneva della “sostanza”, quell’ appartamento all’Al-hamma, che s’affacciava direttamente sulla città dando le spalle al Tago.
L’aveva acquistato una società che stava per fallire, cedendolo poi ad una società di Oporto ad un prezzo di mercato giudicato equo dal tribunale, ma quei soldi, una volta apertasi l’eredità non si erano più trovati.
Nessuno però, finora, aveva notificato uno straccio di atto giudiziario a Joao.
L’unica cosa che quella madre snaturata aveva pensato e fatto a favore del figlio, era di aver reperito in Italia, attraverso questo Agostinho, un bidet applicato sulla tazza sostituendone il coperchio di modo che al ragazzo, possedendo egli esclusivamente una parte del corpo, fosse risparmiato se non ad ogni funzione almeno una volta su due, di entrare in doccia (mancando la vasca e non essendovi spazio alcuno per installarla) rischiando così rovinosamente di cadervi e rimanere sul fondo saponoso.
P.S. Mi scuso con gli affezionati ed entusiasti lettori se mi vedo costretto ad aggiungere, il calce a questo primo episodio, l'epilogo del medesino, mancando il quale il lettore medio-avveduto si vedrebbe vietata, non per colpa sua, la possibilità di comprendere almeno il nesso con il titolo. Ok?
Dopo aver espletato la funzione, aver srotolato molta carta igienica anche questa di marca italiana ma venduta negli ipermercati di Lisbona a prezzi addirittura di un terzo inferiore al costo, Joao si alzò, si pulì, tirò la catenella una volta, passò lo spazzolone, tirò nuovamente la catenella, guardò se nella tazza fosse rimasto a volte un residuo indesiderato, e una volta sicuro che tutto avesse funzionato a meraviglia in due sole passate fece scendere il bidet che fungeva da coperchio. Vi sedette con la sua sola culatta ed iniziò ad insaponarsi, poi a sciacquarsi ed infine ad asciugarsi con gli scottex di una rinomata ditta finlandese, acquistati sottocasa insieme alla schiuma da barba ed ai rasoi usaegetta di una società talmente famosa mondialmente che solo a pronunciarne il nome, anche storpiandolo capireste la sua provenienza francese. Non volendo pubblicizzarlo gratuitamente, vi prego pertanto il permesso di astenermene.
Una volta ritiratosi su le mutande ed infilate le ciabatte con il marchio di un rinomatissimo albergo cittadino per stranieri il giovanotto tornò in camera, dove infilò stavolta per il verso giusto una maglietta in filo di scozia a mezze maniche pur essendogli stato sospeso il riscaldamento dal decesso della madre a causa che da allora nessuno onorava le spese di riscaldamento condominiale nonostante l’amministratore facesse filtrare trimestralmente un biglietto sotto il portoncino con l’estratto conto ed il messagio “tanto lo so che ci sei” Joao infilò anche il pantalone ad un’unica gamba stringendo alla vita la cintura in corda all’ultima moda e, uscito dalla camera, sempre saltellando, stavolta si diresse a sinistra verso il cucinotto.
Qui giunto, a memoria eseguì alla perfezione tutte le operazioni per ottenere un ottimo caffè dalla moca semisommersa nell’acqua del lavandino otturato dalle bucce di una banana cena della sera e, una volta ottenuto e versatolo nel bicchere con i soliti 5 cucchiani di zucchero bianco, finalmente sedette sulla sedia rimastagli, allungando il piede soddisfatto sotto il tavolo di cucina con il ripiano in formica giallo senape a grandi pois azul.
Mentre sorbiva la bevanda sbollentandosi le labbra e la mezza lingua attirò a sé, con la forza di uno sguardo lungamente allenato, il notes e la penna tipo biro appoggiati, alla distanza di una quindicina di centimetri, alla parete, fumèè anch’essa, del cucinotto.
Fissò, per aiutarsi a fantasticare, il riquadro di vetro dell’unica finestra dell’appartamento ricoperta da una tendina di un rosa impalpabile, unica concessione ai colori tenui da parte della madre e, con sua enorme sorpresa, s’avvide che nel cucinotto simmetricamente opposto al suo, stesse le spalle al Tago, all’improvviso dopo tanto tempo, di profilo, per un attimo fuggevole ma sicuro come il bianco antico del foglio a quadretti bianchi che aveva ora sotto il gomito, s’era stagliata un’ombra.
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