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Un metro indietro

1
- Non c'è altro, non c'è. Gridò l'uomo. Labbra avvizzite, che voleva tirarsele dentro, umettare con la punta della lingua, togliergli l'arsura da cui erano state colpite avendo voluto guardare oltre le sbarre, ed invece lasciò ancora a seccarsi.
Era stato necessario portarsi un metro indietro, sentire l'incavo del ginocchio destro non poter più arretrare, poi il sinistro, sulla traversa fredda della branda, ed avanzare allora due centimentri per saltellare quel poco che si poteva senza sbattere troppo l'osso del cervello contro la pietra grinzosa, ostile, del basso soffitto della cella in cui l'avevano rinchiuso tre notti prima.
Non se lo chiedeva più il perché l'avessero fatto, perché fosse stato portato via dal suo tavolo sotto il quale aveva appena iniziato a stendere le gambe. Preso sotto le braccia e sollevato, e trascinato sul marciapiede dai due subordinati mentre il terzo, il capo, anch' esso vestito in abiti civili, comandava ogni loro movimento chiudendo e aprendo le palpebre, respirando senza alcun rumore.
Non che volesse opporre resistenza, ma solo mantenere un comportamento dignitoso verso la propria residua integrità e farglielo notare. Così aveva camminato, rinserrato tra i due, tenendo le reni, la schiena e il collo dritti, nel buio pece senza stelle e luna guardando avanti, verso l'inizio della strada a senso unico da cui erano probabilmente arrivati.
L'avevano portato a scendere il gradino del marciapiede cambiando all'unisono direzione, senza violenza, alcuna forzatura, come se fossero amici di vecchia data che volessero soltanto passeggiare insieme scegliendo essi da che parte andare, in un silenzio improbabile con tutte le luci delle finestre accese sulla via.
La vita avrebbe continuato, indifferente alla sua assenza, alla sua esistenza. Nel bagliore dei fari che s'erano accesi, s'erano spenti e accesi di nuovo per un segnale pattuito, rivide il gonfiore del viso della compagna, già all'ottavo mese, le sue caviglie.
Con il saltello, oltre che escoriarsi il cuoio capelluto e provare un dolore che l'aveva rattrappito sul pavimento in argilla battuta, aveva potuto vedere il vuoto. Assoluto, poiché ogni oggetto che era esistito sembrava scomparso dalla faccia della terra senza lasciare traccia.
Oltre sbarre di ferro, reti metalliche e pietre.
Il mondo ha iniziato a dimenticare, pensò latrando e cercando di massaggiarsi il cranio. Poi si accorse che lo stesso stava sanguinando dall'appiccicosità delle dita appena ritirate.
Il cielo era rimasto buio fin da quando l'avevano gettato nel buco attraverso il portellone.
- Non può essere altro che il mio sangue. Gli era emerso allora dalle profondità del colpo inaspettato, tuttavia pieno di speranze ed incredulità..
Il tempo pareva essersi fermato. Negli occhi un firmamento teso di stelle. Azzurrine nel blu espanso di due cieli simili: quello fuori e quello del cuore.
Il cuore l'estensione innominata. Il cuore la bestemmia.
Il portellone si stava sollevando. Nessun suono di meccanismi umani. Nessun rumore, né cardini cui appigliarsi. L'estremità inferiore della falce di luna che gli pendette sulla testa calò improvvisamente nella grotta angusta. Egli cercò di aggrapparvisi con ambedue le mani, ma il coperchio, richiusosi, la separò dal corpo centrale e da ciò che avrebbe costituito il salvagente dell'arco superiore ed egli sentì lo sfilacciarsi della luce e la vide sfilarsi miseramente dalle dita.
Seduto ora sul bordo della branda rifletteva per quale motivo: un disegno, il caso? il portellone si fosse sollevato.
Immediatamente poi, nella mente gli insorse la riflessione successiva. Perché il doppio anello della luna, quello esterno, l'appariscente, non avesse tenuto. Perché si era dimostrato così fragile.
Greta era tornata a casa la sera tardi del venerdì, come di solito accadeva. Non mostrò alcuna sorpresa per l'assenza di Hans dalla casa in cui da alcuni mesi coabitavano.
Una volta aperto il portoncino d'ingresso con un solo scatto della chiave ed aver appeso il pesante soprabito in uno degli appendiabiti della nicchia del sottoscala, si era recata in cucina, aveva aperto il frigorifero, aveva avvertito l'odore troppo forte del latte che vi stazionava da almeno due giorni e una notte, e, prima ancora di dare il primo sorso dal bicchiere, aveva saputo che era successo.
- L'hanno fatto, l'han portato via.
Guardava in direzione del piccolo soggiorno per rendersi conto, dalla dislocazione delle sedie, come il prelevamento fosse avvenuto, quanti fossero. Ma soltanto la sedia nella quale Hans sedeva abitudinariamente era discosta dal tavolo. Nessuno aveva provveduto a riaccostarla, a fare un minimo di ordine prima di uscire. Nemmeno il suo compagno, per altri versi così ordinato da portarla, talvolta ed ora che era all'ottavo mese, sempre più spesso, all'esasperazione.
Greta, da un anno, aveva trovato lavoro come impiegata archivista alla Polizia di Stato di Knabel, una località a poco meno di duecento chilometri che raggiungeva ogni domenica sera alle diciannove e otto minuti e che lasciava ogni venerdì alle 18,42.
L'incarico non prometteva alcuna carriera folgorante, ma l'aveva ottenuto per concorso, per il quale motivo, pur sapendo che oltre la rata del mutuo trentennale dell'appartamento di Hans avrebbe dovuto pagare fino al pensionamento l'affitto di una camera a Knabel, avendo ventotto anni, s'era convinta a fare un figlio prima che fosse tardi.
Portò il bicchiere di latte con se stessa sorseggiando il liquido una seconda volta, passò accanto alla sedia accostandola al tavolo ed andò a sedersi sul divano a due posti in cuoio bianco davanti allo schermo del televisore a parete. Piegandosi leggermente, raccolse con la destra il telecomando dal basso tavolinetto ad una ventina di centimetri dalle ginocchia e passò la sinistra all'altezza dell'ombelico, dove la trattenne.
Si era rifiutata di fare ecografie, monitorando invece in modo assiduo la forma assunta dal ventre ed era sicura che la creatura portata in grembo fosse una femmina. Le parlava continuamente rivolgendosi a lei fin dall'inizio con il nome di Erika. Anche per le piccolissime babbucce cui ora era intenta a sferruzzare era stata scelta della lana color rosa pallido.
Prudenzialmente, fissò il rewind dei notiziari regionali al martedì mattina e li stette tutti ad ascoltare. Nessuno di essi riferiva di una qualche scomparsa.
Greta si tranquillizzò ed iniziò a trasmettere la stessa quiete all'essere che portava dentro. Aveva appoggiato il bicchiere sul tavolinetto e portato anche la destra a massaggiare l'ombelico. Si percorreva il ventre dalla piega sotto il seno all'incavo duro e teso dei fianchi, fino all'inguine, poi tornava su e nel frattempo le parlava.
- Tuo padre è scomparso. Non ci sarà ad attenderti, non entrerà con noi in sala parto, non vedrà lo schifo in cui si nasce. Egli si salva, verrà salvato una volta ancora e per sempre. Il senso dell'estetica, sai, Erika; il fiore delle sue iridi, il mondo ingenuo non verrà schizzato dalle mie feci, dai miei liquidi. Il tuo primo respiro non gli ottundererà i timpani. Hans è il suo nome, l'hai sentito. Quante volte hai ascoltato chiamare il suo nome oltre questa parete: il nome dei mondi che non vogliono.
Si era fatto tardi, Greta si sentì improvvisamente stanca. Sul tragitto ferroviario c'era stato un imprevisto; pareva che una persona si fosse gettata sotto il treno e la sosta non prevista aveva rallentato il ritorno a casa.
Nemmeno di questo fatto, il telegionale aveva parlato.
Si alzò dal divano, spinse il tasto di spegnimento del telecomando senza spostarlo dal tavolo, raccolse il bicchiere quasi pieno e si avviò per le scale tenendosi al corrimano. Facendo la massima attenzione a non scivolare.
Giunta al piccolo pianerottolo in parquet di noce scuro al primo piano, aprì la porta del bagno.
Con la mano, a tastoni, cercò sulla sinistra la serie dei tre interruttori luminosi a contatto e sfiorò con il dito medio quello centrale. Sulla vasca da bagno a idrogetto posta nell'angolo a L in fondo alla stanza, si accesero i due faretti appesi al controsoffitto. Greta raggiunse la vasca, ruotò l'apposito disco e chiuse lo scarico. Poi aprì il rubinetto dell'acqua calda.
Sull'appendiaccappatoi ai lati della vasca notò che c'era appeso soltanto quello di Hans.
Tornò indietro, entrò in camera da letto, fece scorrere un'anta dell'armadio, trovò il proprio accappatoio, lo adagiò sul letto e, finalmente, seduta sulla propria sponda, potè iniziare a spogliarsi.
Reagì alla nudità raggiunta con un fremito.
Indossò in fretta l'accappatoio di pesante spugna e con l'idea in testa che il ventre avrebbe avuto tutto il tempo di guardarselo una volta che si fosse immersa nella vasca - ormai piena a suo giudizio - calzò le ciabatte, raccolse il bicchiere di latte che aveva appoggiato sul tavolinetto in ferro battuto a lato della testiera e si diresse verso la porta dirimpetto, rimasta aperta come quella della camera. Il termostato di servizio nel corridoio rilevava una temperatura ambientale, al piano, di venti gradi centigradi.
- Giusta, solita. Pensò Greta, dirigendosi decisa all'Hydrosonic. Anche l'acqua al suo interno aveva raggiunto la perfetta temperatura, constatò una volta giunta con il ginocchio ad accarezzare l'arrotondamento del bordo ed averne sfiorato voluttuosamente la superficie con il dorso della mano libera.
La donna cercava disperatamente di indovinare il perché del fremito che l'aveva percorsa da capo a piedi una volta nuda. Non poteva essere stato il freddo. La casa era convenientemente ed uniformemente riscaldata. Non riusciva a farsene una ragione plausibile. Dalle spalle in giù, le era successa la stessa sensazione di gelo del bicchiere in cui, appena entrata, aveva versato il latte dalla bottiglia in frigorifero. La pelle interamente imperlata di goccioline.
Le era parso di essere un vetro riempito proditoriamente di una sostanza conosciuta, ma estranea .
- In effetti si tratta non di estraneità, bensì di condizionamento. Di ciò che si vuole raggiungere. Ragionò Greta liberandosi del bicchiere, appoggiato alla mensola che usava per sedersi e farsi fare il massaggio alle caviglie dai getti d'acqua.
Hans, intanto, stava scorgendo la salvezza in un'interminabile fila di formiche. Nel buio pesto della grotta sarebbe stato impossibile chiedersi da dove venissero, ma se lo chiede il dandy con gli occhi stralunati sulla miriade di riflessi del bolleggiare al di qua di glabre figure ondeggianti nelle penombre di ogni crepuscolo, da dove arrivano gli appetizers, in quale incandescente inferno siano mai stati fecondati?
Quella che ebbe la ventura di arrivare per prima sulla falange del pollice destro godette come poche del massaggio della lingua di Hans, prima di sentirsi sgranocchiata come un salatino.
- È nelle vicinanze. Ecco, è questo che ti perdono. Disse a se stessa Greta, la nuca appoggiata al materassino grigio fumo del bordo, appena abituatasi al rilassamento delle maree gettate su di lei dal furore sottomarino delle correnti di plastica.
-Perché eviti accuratamente di farmi questo dono? La voce soffocata di Hans veniva sicuramente da sottoterra. Forse un carcere, una tomba.
Ormai si erano messi a parlare. Pur se Greta mostrava ancora una certa reticenza.
- Non lo chiedere a me. Aveva risposto lei, adocchiando la porta semichiusa, lasciata in quello stato intenzionalmente ancor prima di mettere piede nella vasca ed evitare pertanto che il vapore sprigionandosi dai getti d'acqua le aprisse i pori troppo in fretta. - Non me lo chiedere.
 
Continua

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