Scritto da © Winston - Lun, 04/08/2014 - 20:45
U fistinu - I° Capitolo - quinto episodio
Pancrazio si era spaventato a morte alla progressione del cigolare degli anelli che gli aveva tempestato i timpani, ma non aveva tirato indietro di un centimetro il piede.
Non per fede, né per logica.
Sia l'una che l'altra avrebbero potuto tradirlo in forza dell'elemento imponderabile, del non conosciuto, né visitato: uno o più anelli usurati dalla ruggine, ad esempio, o lo schiantarsi di un nodo, un punto debole del legno di frassino cui la catena era stata inannellata, o il lento sfrangiarsi nelle intemperie delle funi che vincolavano l'un l'altro i tre pali.
L'uomo, per una sola ragione era rimasto immobile, tremante, ma fermo sul posto: per aver, nella sua esperienza, assimilato l'irrimediabile, averlo fatto proprio. Essere riuscito a conoscere che la fede e la logica sono, entrambe, criticità in cui è caduta l'umanità, la specie più evoluta sulla terra.
Progetti ambiziosi presentati, mai verificati da un verificatore superiore; oppure, progetti che lo stesso verificatore, nonostante la proposizione, abbia mai effettivamente ritrasmesso alla medesima specie, sia per quanto riguarda la documentazione e la certificazione sul progetto sia, sulla sua fattibilità. Scritta di suo pugno.
Detto in altri termini: non conosciamo, si diceva il monaco, né l'avvento della nostra nascita, né quello della nostra morte nonostante ne siamo i protagonisti e, dell'esperienza del nostro esserci, una trascurabile parentesi di spazio e temporalità, ci rimangono ancora oscuri tanti dettagli. Non possiamo, non lo possiamo essere, i testimoni di un derivato del fermarsi.
E la memoria? Dove mai finirà ciò di cui si svuota?
Con questi limiti, come può l'uomo arrivare alla verità con la V., come potrebbe conquistare le anime dei propri simili, alla V. ?
Queste erano le meditazioni dall'alba fino agli astri della sera, prima nei cortili dei cenobi, sofferte sulle pavimentazioni dei graniti strappati alla terra insieme ai suoi compagni, ora, invece, stridenti come la catena di Nigro, nella grotta naturale sui Monti Sicani, .
Ed ogni volta Pancrazio, per questo, continuava a rivolgere lo sguardo, cercava verso l'alto. Poi lo abbassava, lo sguardo, lo indirizzava imperturbabilmente alle catene.
Rosalia l'era stato a guardare per tutto il tempo, fissa come una statua all'interno della bassa porta, la fronte ad acclimatarsi al querciolo che ne sorreggeva sulla sinistra il travetto dello stesso colore.
Già sapendo che Nigro non ci sarebbe arrivato.
Appena il mannara raggiunse Vincenzino ed ebbe a fermarsi, gridò ancora all'eremita: Cos'è...vuoi del pane?"
- Dammi quel che puoi. Aveva risposto lui.
Si stava incamminando.
La donna gli corse dietro. "Te ne vai per il cane?"
Aveva lo sguardo trasognato, Pancrazio. Si volse verso Rosalia: - Il cane?
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