Scritto da © Untel - Ven, 02/11/2012 - 17:42
Non si percepiva il rancore
ma un sorriso di ghiaccio
su quel volto d’avanspettacolo.
La desolazione è ruggine
che imbratta l’illusione e divora
qualche volta la retorica.
L’indomani mattina
lei avrebbe inveito contro la natura così indelicata
così beffarda verso le sue due figlie
dalla bruttezza spietata.
Nessuna armonia
né maniere
solo esuberante bruttezza
che non passava inosservata all’indifferenza.
Era più arduo maritare le due zitelle
che convincere il re ad abdicare
e durante il gran ballo a corte
sapeva che se le sarebbe riportate in carrozza
sconsolate e senza promesse.
Anastasia
Genoveffa
allampanata e smilza l’una
pingue e goffa l’altra
entrambe smodate,
con l’idiozia perenne tra i denti
e lentiggini che si prestavano da sole
ad una munifica antipatia.
Per tutto questo
la madre si tormentava come
una vespa nella resina.
Ma l’orgoglio più rorido
placa il rancore e si cerca l’inganno
dappertutto:
come aveva fatto lei
a persuadere un principe,
quella sguattera,
la sua serva senza più il grembiule
e le dita nere di cenere.
L’orgoglio serrato della matrigna
metteva sulle labbra leporine
un riso osceno e nervoso.
Non sapeva definire l’ossessione
e le corde del dubbio stonavano:
era per quel vestito ricamato con fili d’oro
e per quelle scarpette di cristallo?
Proprio non le veniva in mente
che una fata per una notte
aveva tolto dai tetti la luna
per portarla al ballo.
Ma non aveva del tutto torto:
in fondo tutto è cominciato da una scarpetta
lasciata sulle scale
nei dodici rintocchi della notte.
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