Potessero saperlo; potessero saperlo quanto siamo fragili, complementi, soggetti, i più semplici e raffinati, complicati, arzigogolati imbrogliamenti del pensiero. Come desiderose di radicarci un uomo accanto.
Si, gli uomini dovrebbero saperlo per impaurirsi, invaghirsi, perdere la testa per noi e, quando lo vorremo, allontanarsi per lasciarci sole, pronte a nuove, più profonde intimità, voli d'angelo in galassie nebulose eppure chiare e splendenti di soli da ammirare, tirare per lembi e dita per raggiungerci e diventare gomme.
Noi siamo terra, mari, scogli sottomarini, Calypso e Circe, Sharazar, Penelope, letti e lenzuola profumate e nude, polvere, imperiali cuscini da sofà, avvolgenti profumatissime escrescenze da annusare, arare, tornarci su ripartendo dagli inizi, ah Adamo, tu non hai ancora compreso la dolcezza di quella punizione che ti fu donata dalle essenze creatrici quando vi fu il peccato, miracoli di piedi sollevati al cielo, smalti di Bisanzio soffusi di penombre, multiriflessi specchi di brillanti lavorati da certosini dai 55 visi, centodieci occhi.
Noi siamo dure, molto più dure di qualunque acciaio se tu non capisci quando ci pieghiamo a giunco, quanto ci scuote un alito sul collo, quando la nostra guancia viene strappata alla parete per esser divorata, immediatamente autorigenerarsi come una coda di lucertola per inciderti il sentiero ad una bocca. Per trasformarci in cime di mercurio argenteo sciolte a crepacci bui, miniere d'Africa di groppe, di diamanti rari, di misteri e vene diramate.
Tiè! Siamo noi, le viscere madri dei tuoi figli.
Testo e immagini inviatemi da Maria Giudecca
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