Scritto da © Antonella Iuril... - Lun, 06/02/2012 - 08:49
BIBLIOGRAFIA
Marie De Hennezel, La morte amica, Rizzoli 1996.
Marie De Hennezel – Leloup Y.J., Il passaggio luminoso, Rizzoli 1998.
Elizabeth Kubler-Ross, La morte e la vita dopo la morte, Roma, Edizioni Mediterranee, 1991.
Elizabeth Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi, Cittadella Editrice, 1992.
Stephen Levine, Il gusto della vita, Armenia 1998.
Raymond Moody, La vita oltre la vita, Mondadori.
Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore, Milano, Edizioni Feltrinelli, 1986.
Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire, Ubaldini 1994.
Brian Weiss, Molte vite, molti maestri, Mondadori.
"In questo mondo devi essere in grado di fare tre cose:
Amare ciò che perderai, trattenerlo con tutta la tua forza,
Sapere che la tua vita dipende da questo.
E quando sarà il momento…
Lasciarlo andare.
Lasciarlo andare."
Amare ciò che perderai, trattenerlo con tutta la tua forza,
Sapere che la tua vita dipende da questo.
E quando sarà il momento…
Lasciarlo andare.
Lasciarlo andare."
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Nel 1979 Bob Fosse ci ha regalato “ All That Jazz”, un film che ha fatto storia, uno di quei film che gli americani hanno a giusta ragione inserito nel loro elenco di films da salvare e ricordare. Il primo film del noto commediografo newyorkese è ispirante e nella sostanza è un musical cinematografico con ottima musica e coreografie dal sapore vagamente felliniano.
In “All that Jazz” Gideon, il protagonista, giunge alla resa dei conti di una vita vissuta tra due poli; da un lato, un ossessionante bisogno di controllo e perfezione e dall’altro, un’assoluta incapacità di gestire se stesso e i propri affetti. La sua esistenza è soffocata da ogni genere di abuso: droghe, sigarette, alcol, promisquità sessuale ma soprattutto dal più totale deserto affettivo, derivante dalla mancanza di relazioni vere e durature. Una mistura distruttiva e auto distruttiva che lo conduce ad un prematuro faccia a faccia con la morte.
Un film autobiografico e oltremodo interessante perché inizia per la prima volta il grande pubblico alle teorie sul vivere e il morire, postulate dalla psichiatra svizzera, Elisabeth Kubbler Ross.
Elisabeth Kubler Ross, alcuni anni prima aveva scritto un libro di vitale importanza: “On dying and living”, un testo di rottura, in netta controtendenza rispetto alle modalità adottate negli ospedali nei confronti di pazienti terminali e dei loro parenti. Aveva creato una nuova consapevolezza rispetto al nostro tipo di civilizzazione che nella misura in cui ci nega i passaggi fondamentali della nostra vita, come: il travaglio, la perdita, la morte e il lutto, ci depriva del nostro diritto di vivere la nostra umanità pienamente.
La Kubbler Ross con il suo libro rivoluzionario, punta il dito sull’incapacità di gestire la complessità emotiva legata alla nostra morte e a quella che ci circonda. Secondo la sua tesi, la nostra cultura banalizza, nega e bandisce dalle nostre coscienze i sentimenti inerenti alla perdita, sottraendoci così una grande opportunità di crescita e di umanizzazione. Il modo di porci nei confronti di questa inevitabile realtà può non solo influenzare la qualità della nostra vita, ma persino riscattare una esistenza priva di senso.
Gli ambienti medici furono positivamente influenzati dall’attenzione che la Kubbler Ross poneva sulle emozioni collegate alla morte. In molti ospedali si creò una grande apertura verso queste teorie, si rendevano conto che la loro applicazione non andava ad esclusivo beneficio dei malati ma anche per gli operatori sanitari i quali sebbene costantemente bombardati dalle emozioni dei loro pazienti, sono per lo più ignari ed incapaci di veicolare queste emozioni. Molto più spesso a causa dell’incapacità di gestire i sentimenti di impotenza, paura e perdita, si induriscono alzando barriere emotive che conducono al più totale inaridimento ed alienazione. Purtroppo conosciamo molto bene le conseguenze dei di comportamenti freddi e stereotipati che a volte abbondano nei luoghi dove maggiormente ci si aspetta empatia e supporto.
Durante l’evolversi della malattia, verso la fase terminale la crisi arriva puntuale e non solo per il malato e i suoi familiari ma anche per il personale medico e paramedico; siamo come vasi comunicanti e le emozioni nolenti o volenti passano dagli agli altri ; tutti indistintamente sono messi alla prova.
Ogni evento critico e inaspettato genera conflitti che esigono un nuovo adattamento, nuove modalità di funzionamento e di comunicazione. E’ necessario dover fare significativi per far fronte a nuove emergenze come una grve malattia. I cambiamenti sono inevitabili a partire da quello fisico inerente alla perdita della salute, al prezzo pagato dagli altri componenti della famiglia, ma il processo si allarga a macchia d’olio coinvolgendo il piano emotivo, cognitivo, relazionale, pratico-organizzativo e soprattutto esistenziale e spirituale.
Secondo l’interpretazione di Elisabeth Kubbler Ross, questo processo di adattamento nei confronti di eventi che producono perdita e smarrimento si compone di cinque tappe fondamentali.
La prima è la negazione, l’incredulità che ci pervade di fronte all’inaspettato ci porta subito a dire: “No , non è vero, non sta accadendo a me”.
La seconda è la rabbia: “ Perché proprio a me? Non è giusto!” La terza, è la negoziazione: “Forse posso migliorare la situazione curandomi di più, o almeno sperare in una proroga. La quarta è la depressione. Ed infine abbiamo l’Accettazione.
Queste fasi sono le tappe fondamentali di un percorso che ci si apre davanti ogni qualvolta siamo minacciati e colpiti da una perdita. La vita ci sottopone costantemente a continui adattamenti e ai suoi relativi sentimenti. Accettare la morte come parte integrante della nostra vita, le conferisce sacralità, sancisce la qualità del dono da noi ricevuto ma soprattutto ci dispone a vivere meglio con maggiore pienezza, dignità e senso di valore.
Purtroppo nella nostra civiltà non siamo minimamente preparati e sostenuti ad affrontare la morte, l’abbandono e la perdita. Cerchiamo costantemente di esorcizzarli in ogni modo possibile, persino ricorrendo a droghe e a comportamenti autodistruttivi. Cerchiamo di non pensarci e alla fine ci convinciamo che a noi non può accadere, saremo eternamente vincenti. Eppure la morte e la perdita sono parte indissolubile della vita e tutti, prima o poi, dovremo, direttamente o indirettamente, affrontarla considerata la transitorietà della nostra esistenza.
Anticamente chi subiva un lutto era tenuto a vestirsi di nero, a isolarsi dalla vita sociale per un certo tempo. Era un costume che aveva le sue sacrosante ragioni per l’equilibrio individuale e della comunità. Il lutto richiede un primo momento di introspezione e di solitudine, è importante stare con noi stessi; confrontarci col dolore senza sfuggirlo, riepilogare tutto quello che la persona scomparsa ha rappresentato per noi nel bene e nel male: riconciliarci dentro noi stessi con gli aspetti “negativi” della relazione con quella persona, le ferite che ci ha inferto, quelle che noi a nostra volta abbiamo causato . Tutti sappiamo dei rimorsi e dei i rimpianti senza fine per non aver fatto o detto certe cose quando era il momento di farle o dirle.
Abbiamo bisogno di tempo per scoprire la ricchezza umana di questi momenti tragici e dolorosi, per sentire che la morte non ci depriva completamente dell’altro ma che in realtà ci arricchisce di una eredità emotiva da scoprire e coltivare come giovani preziosi germogli.
La perdita di valori legati al femminile è evidente anche nel modo di affrontare questa fondamentale tappa della nostra vita. Un tempo i rituali collegati alla vita e alla morte erano faccenda di donne che prossime con il loro corpo ai cicli della natura sapevano intimamente che la morte non era un opponente della vita ma l’altro polo necessario alla vita stessa la quale ha bisogno della loro alternanza per fare girare la ruota. La grande Dea conteneva in se anche l’elemento del decadimento fisico e della morte e le sue sacerdotesse veneravano anche questo aspetto, che insieme alla vita era considerato un passaggio attraverso la stessa porta.
Oggi il lutto è vissuto in totale isolamento, ben lontano dall’essere un momento fondamentale di coesione tra esseri umani, lascia piuttosto pensare al modo che hanno i soldati di affrontare la morte in guerra; viene liquidato in modo estremamente freddo e sbrigativo, con somma gioia delle case farmaceutiche che della negazione del dolore hanno fatto il loro maggiore profitto a totale detrimento dei nostri corpi e delle nostre anime.
Non vivere il dolore della perdita, giungere a negarlo o a reprimerlo, come del resto vivere esclusivamente in funzione del lutto, sono modalità fortemente negative sul piano psichico e fisico. Per consentirne l’elaborazione di un lutto ed il suo superamento dobbiamo far affiorare alla coscienza i vissuti della separazione, della perdita, dell’abbandono, che portano con sé disorientamento, rifiuto, panico, disperazione, rabbia, isolamento, depressione e sensi di colpa.
In “All that Jazz” Gideon, il protagonista, giunge alla resa dei conti di una vita vissuta tra due poli; da un lato, un ossessionante bisogno di controllo e perfezione e dall’altro, un’assoluta incapacità di gestire se stesso e i propri affetti. La sua esistenza è soffocata da ogni genere di abuso: droghe, sigarette, alcol, promisquità sessuale ma soprattutto dal più totale deserto affettivo, derivante dalla mancanza di relazioni vere e durature. Una mistura distruttiva e auto distruttiva che lo conduce ad un prematuro faccia a faccia con la morte.
Un film autobiografico e oltremodo interessante perché inizia per la prima volta il grande pubblico alle teorie sul vivere e il morire, postulate dalla psichiatra svizzera, Elisabeth Kubbler Ross.
Elisabeth Kubler Ross, alcuni anni prima aveva scritto un libro di vitale importanza: “On dying and living”, un testo di rottura, in netta controtendenza rispetto alle modalità adottate negli ospedali nei confronti di pazienti terminali e dei loro parenti. Aveva creato una nuova consapevolezza rispetto al nostro tipo di civilizzazione che nella misura in cui ci nega i passaggi fondamentali della nostra vita, come: il travaglio, la perdita, la morte e il lutto, ci depriva del nostro diritto di vivere la nostra umanità pienamente.
La Kubbler Ross con il suo libro rivoluzionario, punta il dito sull’incapacità di gestire la complessità emotiva legata alla nostra morte e a quella che ci circonda. Secondo la sua tesi, la nostra cultura banalizza, nega e bandisce dalle nostre coscienze i sentimenti inerenti alla perdita, sottraendoci così una grande opportunità di crescita e di umanizzazione. Il modo di porci nei confronti di questa inevitabile realtà può non solo influenzare la qualità della nostra vita, ma persino riscattare una esistenza priva di senso.
Gli ambienti medici furono positivamente influenzati dall’attenzione che la Kubbler Ross poneva sulle emozioni collegate alla morte. In molti ospedali si creò una grande apertura verso queste teorie, si rendevano conto che la loro applicazione non andava ad esclusivo beneficio dei malati ma anche per gli operatori sanitari i quali sebbene costantemente bombardati dalle emozioni dei loro pazienti, sono per lo più ignari ed incapaci di veicolare queste emozioni. Molto più spesso a causa dell’incapacità di gestire i sentimenti di impotenza, paura e perdita, si induriscono alzando barriere emotive che conducono al più totale inaridimento ed alienazione. Purtroppo conosciamo molto bene le conseguenze dei di comportamenti freddi e stereotipati che a volte abbondano nei luoghi dove maggiormente ci si aspetta empatia e supporto.
Durante l’evolversi della malattia, verso la fase terminale la crisi arriva puntuale e non solo per il malato e i suoi familiari ma anche per il personale medico e paramedico; siamo come vasi comunicanti e le emozioni nolenti o volenti passano dagli agli altri ; tutti indistintamente sono messi alla prova.
Ogni evento critico e inaspettato genera conflitti che esigono un nuovo adattamento, nuove modalità di funzionamento e di comunicazione. E’ necessario dover fare significativi per far fronte a nuove emergenze come una grve malattia. I cambiamenti sono inevitabili a partire da quello fisico inerente alla perdita della salute, al prezzo pagato dagli altri componenti della famiglia, ma il processo si allarga a macchia d’olio coinvolgendo il piano emotivo, cognitivo, relazionale, pratico-organizzativo e soprattutto esistenziale e spirituale.
Secondo l’interpretazione di Elisabeth Kubbler Ross, questo processo di adattamento nei confronti di eventi che producono perdita e smarrimento si compone di cinque tappe fondamentali.
La prima è la negazione, l’incredulità che ci pervade di fronte all’inaspettato ci porta subito a dire: “No , non è vero, non sta accadendo a me”.
La seconda è la rabbia: “ Perché proprio a me? Non è giusto!” La terza, è la negoziazione: “Forse posso migliorare la situazione curandomi di più, o almeno sperare in una proroga. La quarta è la depressione. Ed infine abbiamo l’Accettazione.
Queste fasi sono le tappe fondamentali di un percorso che ci si apre davanti ogni qualvolta siamo minacciati e colpiti da una perdita. La vita ci sottopone costantemente a continui adattamenti e ai suoi relativi sentimenti. Accettare la morte come parte integrante della nostra vita, le conferisce sacralità, sancisce la qualità del dono da noi ricevuto ma soprattutto ci dispone a vivere meglio con maggiore pienezza, dignità e senso di valore.
Purtroppo nella nostra civiltà non siamo minimamente preparati e sostenuti ad affrontare la morte, l’abbandono e la perdita. Cerchiamo costantemente di esorcizzarli in ogni modo possibile, persino ricorrendo a droghe e a comportamenti autodistruttivi. Cerchiamo di non pensarci e alla fine ci convinciamo che a noi non può accadere, saremo eternamente vincenti. Eppure la morte e la perdita sono parte indissolubile della vita e tutti, prima o poi, dovremo, direttamente o indirettamente, affrontarla considerata la transitorietà della nostra esistenza.
Anticamente chi subiva un lutto era tenuto a vestirsi di nero, a isolarsi dalla vita sociale per un certo tempo. Era un costume che aveva le sue sacrosante ragioni per l’equilibrio individuale e della comunità. Il lutto richiede un primo momento di introspezione e di solitudine, è importante stare con noi stessi; confrontarci col dolore senza sfuggirlo, riepilogare tutto quello che la persona scomparsa ha rappresentato per noi nel bene e nel male: riconciliarci dentro noi stessi con gli aspetti “negativi” della relazione con quella persona, le ferite che ci ha inferto, quelle che noi a nostra volta abbiamo causato . Tutti sappiamo dei rimorsi e dei i rimpianti senza fine per non aver fatto o detto certe cose quando era il momento di farle o dirle.
Abbiamo bisogno di tempo per scoprire la ricchezza umana di questi momenti tragici e dolorosi, per sentire che la morte non ci depriva completamente dell’altro ma che in realtà ci arricchisce di una eredità emotiva da scoprire e coltivare come giovani preziosi germogli.
La perdita di valori legati al femminile è evidente anche nel modo di affrontare questa fondamentale tappa della nostra vita. Un tempo i rituali collegati alla vita e alla morte erano faccenda di donne che prossime con il loro corpo ai cicli della natura sapevano intimamente che la morte non era un opponente della vita ma l’altro polo necessario alla vita stessa la quale ha bisogno della loro alternanza per fare girare la ruota. La grande Dea conteneva in se anche l’elemento del decadimento fisico e della morte e le sue sacerdotesse veneravano anche questo aspetto, che insieme alla vita era considerato un passaggio attraverso la stessa porta.
Oggi il lutto è vissuto in totale isolamento, ben lontano dall’essere un momento fondamentale di coesione tra esseri umani, lascia piuttosto pensare al modo che hanno i soldati di affrontare la morte in guerra; viene liquidato in modo estremamente freddo e sbrigativo, con somma gioia delle case farmaceutiche che della negazione del dolore hanno fatto il loro maggiore profitto a totale detrimento dei nostri corpi e delle nostre anime.
Non vivere il dolore della perdita, giungere a negarlo o a reprimerlo, come del resto vivere esclusivamente in funzione del lutto, sono modalità fortemente negative sul piano psichico e fisico. Per consentirne l’elaborazione di un lutto ed il suo superamento dobbiamo far affiorare alla coscienza i vissuti della separazione, della perdita, dell’abbandono, che portano con sé disorientamento, rifiuto, panico, disperazione, rabbia, isolamento, depressione e sensi di colpa.
testo opera A. Iurilli Duhamel
BIBLIOGRAFIA
Marie De Hennezel, La morte amica, Rizzoli 1996.
Marie De Hennezel – Leloup Y.J., Il passaggio luminoso, Rizzoli 1998.
Elizabeth Kubler-Ross, La morte e la vita dopo la morte, Roma, Edizioni Mediterranee, 1991.
Elizabeth Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi, Cittadella Editrice, 1992.
Stephen Levine, Il gusto della vita, Armenia 1998.
Raymond Moody, La vita oltre la vita, Mondadori.
Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore, Milano, Edizioni Feltrinelli, 1986.
Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire, Ubaldini 1994.
Brian Weiss, Molte vite, molti maestri, Mondadori.
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