Scritto da © Hjeronimus - Mer, 15/06/2011 - 21:41
Fai una passeggiata. Vedi il fiume, un po’ ingrossato dalla pioggia; gli alberi verdi, la collina che si inerpica oltre le loro cospicue chiome, la pioggia stessa che entra da qualche piega dell’abito e prodiga alla pelle la sensazione del bagnato, un brivido piccino, non si sa se gradevole o seccante.
C’è uno steccato e poggi la mano sulla lunga pertica orizzontale inchiodata alle stanghe d’ugual matrice infisse nel terreno. E sotto il tuo tocco, ecco la durezza flessuosa e in fondo dolce del legno… Così il sogno della concretezza manifesta ai nostri sensi la sua realtà, obbligandoci a condividerla. E su di essa pende il flagello acre dell’enigma: è davvero la realtà? È davvero siffatta come percepita dai miei sensi? La realtà è la realtà?
Una tale domanda entra in gioco semplicemente perché in qualche modo noi supponiamo che non sia tutto così dato e scontato come sembra. Noi sappiamo che le cose sono diverse, anzi, non sono le cose, sono qualcos’altro. La percezione così certa, così tetragone e sicura di sé della durezza del legno, del bagnato dell’umido, o del verde vegetale, ci concede la perfetta illusione del reale e ci tranquillizza, così facendo, sul lato nevrotico del nostro essere, che teme invece che nulla sia vero, perché l’essere esprime come nevrosi la sua paura della verità e relega quest’ultima nei caveaux della rimozione, pur di evitarla. Eppure, da qualche parte, la verità esiste, ed è ineluttabile…
Così, ci illudiamo di essere fatti, anzi ci illudiamo che l’universo intero sia fatto! E chiamiamo magari “Dio” quegli che l’ha fatto. Ossia, diciamo che un corpo è qualcosa di fatto, che è impenetrabile, per esempio, che, se non è liquido, si può afferrare, manipolare, lanciare magari, come una pietra. Ecco, raccolgo una pietra, la osservo. Questa pietra è solida, impenetrabile, refrattaria. Per l’occhio è oggetto, per la mano è durezza, non posso passarci o vederci attraverso… è reale. Ecco cosa significa reale…
Qui scatta il pregiudizio, il nostro pregiudizio positivo, necessario, per cui le cose debbono esistere, pena la nostra alienazione, la dissociazione, la schizofrenia. E concediamo pur volentieri tale pregiudizio, ma non senza aprire ad un’altra interpretazione: tutto il mondo che ci circonda e che ci viene incontro, tutto ciò che vediamo, tocchiamo, percepiamo, è dato come materia ai nostri sensi, e diventa per noi realtà materiale. Ma invece è tempo, e se vogliamo che sia la realtà, dobbiamo dire che questa è storica, non materiale.
Sissignori, ciò che vediamo non sono le cose, ma la storia. È perciò che tornando sui luoghi di avvenimenti anche grandiosi, o tragici, non troviamo più nulla, mentre, per parte loro, tali avvenimenti ci sembrarono memorabili. È la memoria l’unica archeologia possibile all’essere. Le cose che restano, sono pezzi di tempo, pezzi di caos, ma non sono cose: l’unico Colosseo che potrete mai vedere è quello di voi che ci state davanti. Non ce n’è un altro. Non ci sarà mai più…
Le cose, forse, sono fatte di atomi, ma gli atomi sono fatti di tempo (“Gli atomi non sono cose”: Heisenberg). Noi assistiamo per sempre ad una scansione temporale, non come qualcosa “che passa”, ma come materia, il che ci concede l’illusione dell’esistenza obiettiva del mondo. Ma questo non è che una forma, una forma storica. E il nostro vederlo non è altro che questa stessa storia in transito nell’essere, ossia nell’esserci, ossia nel nostro stesso essere. Il panorama, là fuori, non è il panorama. È il pezzo di tempo assegnato al nostro essere. Di che è “fatto”? È fatto della nostra nascita e della nostra interpretazione: è il tempo della nostra esistenza e della nostra autocoscienza. Un tempo che concede ad ambedue, all’io interno e all’orizzonte esterno, in contemporanea, la facoltà di dispiegamento dell’essere.
Se perciò vorremo dare una definizione di essere, di questo predicato che predica l’esistere “cosale” in sé, e quindi anche se stesso; se volessimo ridurlo ad un solo termine che avesse la forza di rappresentarcelo sinteticamente in un unico getto di senso e di espressione; se volessimo condensare tutta l’essenza d’essere di ciò che sembra esistere davanti ai nostri sensi, dovremmo magari sbalordirci davanti a questa parola magica. Che è questa: mentre- tutto ciò che è, è mentre: l’essere è l’unità storica che fa coesistere il testimone storico (cioè, me stesso, io) col contesto stesso di cui è testimone. Ossia, il paesaggio che lo accoglie esiste nel mentre che lui esiste. L’essere (del mondo, delle cose, della materia) è il co-essere di ciò che co-esiste all’essere che nomina l’essere, cioè il testimone, nel mentre che “essi” (gli esseri) sono.
C’è uno steccato e poggi la mano sulla lunga pertica orizzontale inchiodata alle stanghe d’ugual matrice infisse nel terreno. E sotto il tuo tocco, ecco la durezza flessuosa e in fondo dolce del legno… Così il sogno della concretezza manifesta ai nostri sensi la sua realtà, obbligandoci a condividerla. E su di essa pende il flagello acre dell’enigma: è davvero la realtà? È davvero siffatta come percepita dai miei sensi? La realtà è la realtà?
Una tale domanda entra in gioco semplicemente perché in qualche modo noi supponiamo che non sia tutto così dato e scontato come sembra. Noi sappiamo che le cose sono diverse, anzi, non sono le cose, sono qualcos’altro. La percezione così certa, così tetragone e sicura di sé della durezza del legno, del bagnato dell’umido, o del verde vegetale, ci concede la perfetta illusione del reale e ci tranquillizza, così facendo, sul lato nevrotico del nostro essere, che teme invece che nulla sia vero, perché l’essere esprime come nevrosi la sua paura della verità e relega quest’ultima nei caveaux della rimozione, pur di evitarla. Eppure, da qualche parte, la verità esiste, ed è ineluttabile…
Così, ci illudiamo di essere fatti, anzi ci illudiamo che l’universo intero sia fatto! E chiamiamo magari “Dio” quegli che l’ha fatto. Ossia, diciamo che un corpo è qualcosa di fatto, che è impenetrabile, per esempio, che, se non è liquido, si può afferrare, manipolare, lanciare magari, come una pietra. Ecco, raccolgo una pietra, la osservo. Questa pietra è solida, impenetrabile, refrattaria. Per l’occhio è oggetto, per la mano è durezza, non posso passarci o vederci attraverso… è reale. Ecco cosa significa reale…
Qui scatta il pregiudizio, il nostro pregiudizio positivo, necessario, per cui le cose debbono esistere, pena la nostra alienazione, la dissociazione, la schizofrenia. E concediamo pur volentieri tale pregiudizio, ma non senza aprire ad un’altra interpretazione: tutto il mondo che ci circonda e che ci viene incontro, tutto ciò che vediamo, tocchiamo, percepiamo, è dato come materia ai nostri sensi, e diventa per noi realtà materiale. Ma invece è tempo, e se vogliamo che sia la realtà, dobbiamo dire che questa è storica, non materiale.
Sissignori, ciò che vediamo non sono le cose, ma la storia. È perciò che tornando sui luoghi di avvenimenti anche grandiosi, o tragici, non troviamo più nulla, mentre, per parte loro, tali avvenimenti ci sembrarono memorabili. È la memoria l’unica archeologia possibile all’essere. Le cose che restano, sono pezzi di tempo, pezzi di caos, ma non sono cose: l’unico Colosseo che potrete mai vedere è quello di voi che ci state davanti. Non ce n’è un altro. Non ci sarà mai più…
Le cose, forse, sono fatte di atomi, ma gli atomi sono fatti di tempo (“Gli atomi non sono cose”: Heisenberg). Noi assistiamo per sempre ad una scansione temporale, non come qualcosa “che passa”, ma come materia, il che ci concede l’illusione dell’esistenza obiettiva del mondo. Ma questo non è che una forma, una forma storica. E il nostro vederlo non è altro che questa stessa storia in transito nell’essere, ossia nell’esserci, ossia nel nostro stesso essere. Il panorama, là fuori, non è il panorama. È il pezzo di tempo assegnato al nostro essere. Di che è “fatto”? È fatto della nostra nascita e della nostra interpretazione: è il tempo della nostra esistenza e della nostra autocoscienza. Un tempo che concede ad ambedue, all’io interno e all’orizzonte esterno, in contemporanea, la facoltà di dispiegamento dell’essere.
Se perciò vorremo dare una definizione di essere, di questo predicato che predica l’esistere “cosale” in sé, e quindi anche se stesso; se volessimo ridurlo ad un solo termine che avesse la forza di rappresentarcelo sinteticamente in un unico getto di senso e di espressione; se volessimo condensare tutta l’essenza d’essere di ciò che sembra esistere davanti ai nostri sensi, dovremmo magari sbalordirci davanti a questa parola magica. Che è questa: mentre- tutto ciò che è, è mentre: l’essere è l’unità storica che fa coesistere il testimone storico (cioè, me stesso, io) col contesto stesso di cui è testimone. Ossia, il paesaggio che lo accoglie esiste nel mentre che lui esiste. L’essere (del mondo, delle cose, della materia) è il co-essere di ciò che co-esiste all’essere che nomina l’essere, cioè il testimone, nel mentre che “essi” (gli esseri) sono.
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