Scritto da © max pagani - Ven, 28/05/2010 - 19:50
Martina Dietro la Palude
E sono fiori e confetti
E regali da scartare
E sono viaggi e programmi
E forse una pancia da riempire
Sembra una specchio argentato quello all’orizzonte
Sembra un lago incantato incastonato dietro un monte
Di quel lui che non riesci a fare senza
Carne solida, ma che ci vedi in trasparenza
Nulla che somigli alla paura, all’agonia di un incidente
E’ la Palude di Martina, che si avvicina velocemente
Martina Nella Palude
L’acqua lo sai che non e’ particolarmente alta.
Trattasi di palude, che per sua natura non ti affoga all’istante, ma ti rende instabile, ti fa perdere i riferimenti, e ti tiene a disagio costantemente, con le tue gambe a mollo, limo fango e sedimenti morti che ad ogni passo mentale ti tirano giù.
Poi gestire le tue braccia ed il tronco, hai la testa ancora fuori e puoi leggere, osservare, capire e capisci che poi ancora desiderare.
Martina nella Palude sa che può ancora respirare.
Muove passi lenti e misurati, l’acqua paludosa quasi stagnante, ha temperatura mite e quasi fastidiosa, perché l’accoglie e non l’importuna direttamente. Muove passi rallentati, qualcosa le sfiora le gambe e si irrigidisce, pensa forse ad una sanguisuga, o aspira all’idea di un fiume di Piraña a divorarla definitivamente. Nulla di questo invece, Martina. Era solo un calzino sporco dimenticato.
Martina nella Palude sa che può ancora aspirare.
Saggia l’acqua tiepida.
Martina e’ da troppo nella Palude e la stanchezza comincia a farsi sentire. Decide che forse ora e’ il caso di potersi sedere, l’acqua bassa stagnante le permette di respirare. Ha il collo per metà immerso, ha la testa per metà immensa, per metà diversa. Il peso e la pressione dell’acqua intorno cominciano a farsi sentire, il respiro si fa pesante ad ogni ingurgito di nuovo ossigeno e un richiamo a una idea di fame comincia ad urlare. Una fame che è la cena che per suo onere e dovere, deve costantemente preparare.
Ma in questa palude che non ha pesci o dolci da regalare, Martina nella sua palude comincia a pensare, che forse vale la pena di potersi sdraiare. Fa un ultimo tentativo, prima di lasciarsi andare.
Lo aveva visto in un documentario, qualche tempo prima, un prima molto lontano, un prima dove il tempo lei lo teneva in mano, dove le paludi le osservava e non ci si immergeva. Sapeva che una palude ha sempre una via di fuga, l’acqua che pare immobile, ha sempre una sua strada, cerca sempre di fluire verso una sua valle. Martina getta un piccolo fazzoletto di carta sul pelo dell’acqua, lo osserva muoversi lentamente, mentre quell’improvvisata torcia di salvezza cerca di indicargli la strada, facendo suo il vento della debole corrente che quella palude cerca di nasconderle.
Martina e’ nella Palude, e osserva e capisce che la lieve corrente esiste, ma quando prova a muoversi, le gambe sono ormai completamente avvolte nel fango fatto di anni trascorsi a raccogliere fazzoletti per terra. Raccoglie anche quest’ultimo fazzoletto. Era solo l’ennesimo fazzoletto in terra.
Martina nella sua palude ha ora deciso di stendersi e dormire. Respira un'ultimo respiro, e si comincia a sdraiare.
La lacrima appena uscita, regala in ultimo un po’ di salmastro a quella palude di acqua dolce, che di dolce non ha mai regalato nulla a Martina, se non sedimenti morti ad avvolgerla e farle ora, da premuroso e soffice giaciglio.
Trattasi di palude, che per sua natura non ti affoga all’istante, ma ti rende instabile, ti fa perdere i riferimenti, e ti tiene a disagio costantemente, con le tue gambe a mollo, limo fango e sedimenti morti che ad ogni passo mentale ti tirano giù.
Poi gestire le tue braccia ed il tronco, hai la testa ancora fuori e puoi leggere, osservare, capire e capisci che poi ancora desiderare.
Martina nella Palude sa che può ancora respirare.
Muove passi lenti e misurati, l’acqua paludosa quasi stagnante, ha temperatura mite e quasi fastidiosa, perché l’accoglie e non l’importuna direttamente. Muove passi rallentati, qualcosa le sfiora le gambe e si irrigidisce, pensa forse ad una sanguisuga, o aspira all’idea di un fiume di Piraña a divorarla definitivamente. Nulla di questo invece, Martina. Era solo un calzino sporco dimenticato.
Martina nella Palude sa che può ancora aspirare.
Saggia l’acqua tiepida.
Martina e’ da troppo nella Palude e la stanchezza comincia a farsi sentire. Decide che forse ora e’ il caso di potersi sedere, l’acqua bassa stagnante le permette di respirare. Ha il collo per metà immerso, ha la testa per metà immensa, per metà diversa. Il peso e la pressione dell’acqua intorno cominciano a farsi sentire, il respiro si fa pesante ad ogni ingurgito di nuovo ossigeno e un richiamo a una idea di fame comincia ad urlare. Una fame che è la cena che per suo onere e dovere, deve costantemente preparare.
Ma in questa palude che non ha pesci o dolci da regalare, Martina nella sua palude comincia a pensare, che forse vale la pena di potersi sdraiare. Fa un ultimo tentativo, prima di lasciarsi andare.
Lo aveva visto in un documentario, qualche tempo prima, un prima molto lontano, un prima dove il tempo lei lo teneva in mano, dove le paludi le osservava e non ci si immergeva. Sapeva che una palude ha sempre una via di fuga, l’acqua che pare immobile, ha sempre una sua strada, cerca sempre di fluire verso una sua valle. Martina getta un piccolo fazzoletto di carta sul pelo dell’acqua, lo osserva muoversi lentamente, mentre quell’improvvisata torcia di salvezza cerca di indicargli la strada, facendo suo il vento della debole corrente che quella palude cerca di nasconderle.
Martina e’ nella Palude, e osserva e capisce che la lieve corrente esiste, ma quando prova a muoversi, le gambe sono ormai completamente avvolte nel fango fatto di anni trascorsi a raccogliere fazzoletti per terra. Raccoglie anche quest’ultimo fazzoletto. Era solo l’ennesimo fazzoletto in terra.
Martina nella sua palude ha ora deciso di stendersi e dormire. Respira un'ultimo respiro, e si comincia a sdraiare.
La lacrima appena uscita, regala in ultimo un po’ di salmastro a quella palude di acqua dolce, che di dolce non ha mai regalato nulla a Martina, se non sedimenti morti ad avvolgerla e farle ora, da premuroso e soffice giaciglio.
Martina Della Palude
E’ solo abitudine, ormai
Occhi chiusi, e distacco da ricordi lontani
Inciclica memoria, fedele compagna
E ciclici ritmi per voi lontani
Oblio, un termine ormai troppo abusato
Mioblio, come si sta bene ora.
E’ che poggiavi chiavi mentre entravi
E’ che aprivi posta mentre annusavi
E’ che baci e abbracci e non capivi
E quella povere che vedevi e non volevi
Non sono stracci e bolle saponate
Né aromi speziati a coprire l’odore
Quel rosso cupo dal muro non si può levare
Quel sangue sotto le unghie ormai,
Lo puoi solo tenere.
Fine
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