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- Solo una cosa, - aveva detto, - anzi, mezza.

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- Solo una cosa, - aveva detto, - anzi, mezza.
Un vecchietto magro magro, cappelletto con visiera e camicia di lino. A quadretti. Due occhi pizzuti, con la supplica dentro. Lo sgomento.
M’ero fermata. Con una certa difficoltà, devo dire. Quasi una frenata.
Cammino sempre molto velocemente, l’avevo sfiorato e stavo per superarlo, ma lui aveva parlato. Mentre un camion rombava sfrecciando. Troppo veloce. Strada cittadina. Correva. E io correvo, con due buste pesanti.
Per quello la frenata. Avevo sorriso allora e dica, avevo detto, con tutta la gentilezza che potevo tirare fuori in quel sole, in quel caldo.
Che non vedevo l’ora di tornare a casa. E mi si scongelava pure il pesce.
- Mi saprebbe indicare da che parte devo andare per piazzale Hegel? Di qua o di la? Faceva gesti con una mano magra magra, indicando.
L’avevo guardato meglio, sempre sorridendo. Dolce. Cercavo d’essere dolce. S’era perso. Sicuramente.
In mano un telefonino, vecchissimo modello. Arcaico.
- Ma è lontano, da qui… ci vorrà almeno una mezz’ora. Forse più. (io ci avrei messo mezz’ora, ma lui…) Dice a piedi?
- Certo. Non c’è problema per me.
Magro magro. L’avevo visto come procedeva lento. Malfermo. Un passetto alla volta.
Come faccio ad aiutarlo, pensavo.
- Che crede? Camminavo molto, io. Doveva aver visto come lo guardavo. Anche se cercavo di non…
- Certo, un po’ di tempo fa, camminavo. Un po’ di tempo…
- Ma è davvero molto, molto lontano. Potrebbe prendere l’auto.
- No, mi sbaglio. Già mi sono sbagliato. Con gli auto io…
- Ma glielo dico io, quale. La porta proprio lì… guardi, lì c’è la …
- No, grazie. Mi dica a piedi.
Risoluto. Ancora la voglia di dimostrarsi che ce la faceva. Sentivo dentro tenerezza. No. Non era tenerezza. Era pena. Così magro, ben vestito. Magari a casa c’era una moglie, una vecchietta che già stava pensando ma che fine ha fatto. Già brontolava. Per non preoccuparsi. O un figlio, o una nuora insofferente. Magari era uscito per starsene un po’ in pace. E s’era perso.
Con quel sole. Con quel sole che mi splendeva addosso, io, col mio vestitino a fiori e le goccioline di sudore che mi brillavano sulla scollatura. E la gonna larga e il fiocco a stringere la vita. Io spavalda, allegra.
Sentivo una scheggia in gola.
- Allora, guardi, vede lì, quel carrozziere? Deve girare a destra. Avevo posato a terra una busta, per indicare.
- Destra.
- Sì, la sua destra e poi andare sempre dritto. (mi capirà? pensavo) Seguire la strada. Che fa tanti ghirigori, ma la deve seguire. È tanta… ma arriva. Poi deve chiedere.
- Destra
- Sì, lì a destra, ma chieda, poi.
- Chiedo, sì. Grazie.- E s’era incamminato, via, alle mie spalle. Mi sentivo colpevole. Che potevo fare, però. Pure il pesce che mi si scongelava.
Magari l’accompagno. Ma no, come faccio. Magari lo metto sull’auto. A quell’età neanche deve pagare il biglietto. Quanti anni avrà avuto. Tanti, sicuro tanti.
 M’ero fermata. Ero rimasta due minuti immobile. Tutti pensieri accavallati e le buste della spesa che pesavano. Però sono giovane, in fondo, ancora. Ce la faccio e queste buste sono  belle pesanti. Ero così allegra, prima. Quasi cantavo. Anzi, mi sa che stavo proprio cantando, poco prima di vederlo.
M’ero girata ed ero tornata indietro allora. Per rimediare.
Non lo vedevo. Poi, eccolo. Era vicino ad un ragazzotto. Quello, col suo telefonino in mano. Stava facendo un numero. Lui vicino, aspettava. Forse starà chiamando i suoi. Forse è in salvo. Lo verranno a prendere. Si prenderà i soliti rimproveri, povero vecchio. Chissà quante gliene avrebbero dette. Chissà che umiliazione.
Improvvisamente un’idea mi s’è stagliata in testa. Come scritta davanti.
A fuoco, sulla pietra dei miei pensieri.
Prima di diventare vecchia, m’ammazzo. Sicuro. Appena m’accorgo che ci siamo, m’ammazzo. Ecco.
(by poetella)
 
 
 
(giugno 2010)
 

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