Scritto da © simonetta bumbi - Sab, 27/01/2018 - 07:57
§ Ogni giorno è, numero, di memoria §
Io non so di cosa fosse fatta la terra prima del nostro arrivo lì, non so se davvero ci fossero dei fili d’erba a sorvegliare il sole o soltanto il niente ad aggrapparsi al tempo facendo scivolare le ore. Non ho mai chiesto risposte, ma di domande ne ho fatte molte.
Il freddo, quando apre le porte, si dimentica delle altre stagioni e lascia scivolare il tempo a marcire; ed è sottile, come le foglie sotto le suole delle scarpe.
Non ho mai saputo se il giorno si vergognasse ad arrivare subito dopo ogni notte, o se le stelle; le stelle, quando le vedevo; cosa pensassero di noi. Non ho mai cercato di inseguire una nuvola, la stanchezza era grande, e il sogno bruciava troppe energie.
Dicono che l’incubo finisce quando ti svegli, ma nei silenzi fatti di sbarre e odio, nelle albe di rigurgiti e peccati del mondo tu sei lì, a voler imparare, a dover ricordare un meccanismo che ti aiuti a risolvere il terrore del prossimo appello; una formula per non dimenticare, un teorema semplice che continui a far scivolare aria nel profondo dei polmoni, un numero, solo un numero.
Io respiravo e conquistavo un altro po’ di tempo per trascinarmi dietro l’agonia che riecheggiava negli occhi di chi avevo accanto, e sapevo che oggi era il futuro, oggi era già un altro ieri raggiunto.
Vedevo; allora c’ero.
Vedevo; allora c’ero.
Non so quanti compleanni abbia vissuto ogni giorno, sì ogni singolo giorno che lentamente passava aveva nel suo interminabile ripetersi di eventi una cadenza ritmata, un compleanno.
Ogni singola ora isolata era un nuovo sasso da ammassare al ricordo, ogni ora cosparsa da piccoli inutili interminabili brucianti minuti, poteva essere semplicemente una vita.
Un compleanno.
E quanti ne sono trascorsi per quelle fauci calde e nauseanti, quelle trappole per la vergogna che adesso tutti chiamiamo forni.
Trappole per la vergogna, quello è il marchio che abbiamo pagato; la vergogna; quella la nostra colpa.
So che non si spegnevano mai e si recitavano le memorie contando le costole di chi ancora cercava di festeggiare l’attesa.
L’attesa di altre ombre scendere da un treno, il desiderio di trovare altrove, al di fuori di noi, di me un corpo che sostituisse il mio, la speranza di non essere io il nuovo pasto.
Ogni singola ora isolata era un nuovo sasso da ammassare al ricordo, ogni ora cosparsa da piccoli inutili interminabili brucianti minuti, poteva essere semplicemente una vita.
Un compleanno.
E quanti ne sono trascorsi per quelle fauci calde e nauseanti, quelle trappole per la vergogna che adesso tutti chiamiamo forni.
Trappole per la vergogna, quello è il marchio che abbiamo pagato; la vergogna; quella la nostra colpa.
So che non si spegnevano mai e si recitavano le memorie contando le costole di chi ancora cercava di festeggiare l’attesa.
L’attesa di altre ombre scendere da un treno, il desiderio di trovare altrove, al di fuori di noi, di me un corpo che sostituisse il mio, la speranza di non essere io il nuovo pasto.
La speranza.
La-spe-ran-za.
Fobia, distillato di ricordi a intossicare la mente, scappare dal mio corpo quella era la speranza, e pendeva come acido sul bordo degli occhi al solo pensare di averla; scivolava giù solcando il viso; e gli occhi bruciavano, bruciavano nell’ingoiare lacrime amare, e ancora più aspra era la perdita senza capirne il motivo, amaro il saluto dei propri cari, o di tutti gli altri, sconosciute immagini legate insieme solamente da quella stella, e da un colore.
Nuovi bocconi a sfamare quelle bocche, nuovi numeri da cancellare da chissà quanti elenchi, un letto in più da riempire e una bocca in meno da sfamare, un vagone in più, da fare giungere e svuotare.
Nuovi bocconi a sfamare quelle bocche, nuovi numeri da cancellare da chissà quanti elenchi, un letto in più da riempire e una bocca in meno da sfamare, un vagone in più, da fare giungere e svuotare.
La pelle lasciava spazio all’egoismo, si lasciava stracciare giorno dopo giorno in un susseguirsi di brividi sempre uguali, nell’inseguimento di piaghe gemelle sull’anima invecchiata.
Come carta velina.
Non c’è assorbenza se non si schiudono le braccia, non c’è riflesso se gli occhi non vedono e la paura, la paura di non riuscire a resistere sbracciava i polmoni sfinendo il corpo ancora più in profondo, e il ghiaccio si impossessava del petto quasi a voler firmare con il suo passaggio la nostra forma ricurva in tacita attesa.
Come carta velina.
Non c’è assorbenza se non si schiudono le braccia, non c’è riflesso se gli occhi non vedono e la paura, la paura di non riuscire a resistere sbracciava i polmoni sfinendo il corpo ancora più in profondo, e il ghiaccio si impossessava del petto quasi a voler firmare con il suo passaggio la nostra forma ricurva in tacita attesa.
L’attesa.
L’attesa.
L’attesa di cosa, l’ho capito solo più tardi, solo dopo essere stato in grado di ricordare, solo quando ho voluto ritornare ancora a solcare quella forma di terra impietritasi nella memoria, l’attesa di finirla con quella vita di fango.
Io non so se una bambola di fango e acqua ha un cuore, non so se i suoi passi fanno rumore o se i suoi grandi occhi possono vedere, ma so che noi, bambole di uomo, respiravamo, e a volte era quella la condanna più grande, era quella voglia nonostante tutto, passo dopo passo, di continuare a lasciare le nostre impronte dietro di noi, e di vederle sempre più leggere, sempre più inutili e sottili, e di bere come se fosse acqua la mortificazione più grande, l’impotenza, l’impotenza di non poter essere per noi stessi, niente di più di una piccola ombra ebrea, niente di più.
Niente di più.
Niente di più.
Le giornate si alternavano alla notte con una cadenza segnata solo dal rimbombare degli appelli, io ero stato tra i fortunati che erano stati scelti per lavorare nella fabbrica.
Gli altri, quelli che erano scesi dal treno insieme a me, avevano avuto la fortuna di smettere prima con quella vita.
Forse.
Gli altri, quelli che erano scesi dal treno insieme a me, avevano avuto la fortuna di smettere prima con quella vita.
Forse.
Ogni mattina dopo il primo appello venivamo portati in quella fabbrica lì vicino; quella grande struttura di ferro, mattoni e lamiera sembrava soltanto una grande bocca affamata che ogni giorno ingoiava centinaia di noi.
Lì, non c’erano solo quelli come me, ho visto lavorare anche gente diversa dalla mia, gente inferiore comunque, nei loro sguardi normali, ma non c’era molta differenza; all’apparenza non c’era molta differenza, anzi, noi eravamo quelli con qualcosa in più.
Un numero sulla pelle.
Lì, non c’erano solo quelli come me, ho visto lavorare anche gente diversa dalla mia, gente inferiore comunque, nei loro sguardi normali, ma non c’era molta differenza; all’apparenza non c’era molta differenza, anzi, noi eravamo quelli con qualcosa in più.
Un numero sulla pelle.
Le ore si accavallavano, come quando da bambini si giocava a fare castelli di carte, una su l’altra, in un equilibrio precario come quello degli acrobati sospesi.
Da piccolo ho sempre amato vederli così, sospesi con le ali, fermi immobili in alto a decine di metri.
Ma solo in quel campo, in quelle baracche di legno e pensieri ho capito che non erano ali quelle che avevano, ma allenamento all’altezza, fatica e allenamento.
Il segreto è solo quello, sofferenza e abitudine.
Anche io sono diventato un angelo volante, dolore e allenamento, a non essere un uomo.
Il segreto è solo quello.
Solo quello.
Da piccolo ho sempre amato vederli così, sospesi con le ali, fermi immobili in alto a decine di metri.
Ma solo in quel campo, in quelle baracche di legno e pensieri ho capito che non erano ali quelle che avevano, ma allenamento all’altezza, fatica e allenamento.
Il segreto è solo quello, sofferenza e abitudine.
Anche io sono diventato un angelo volante, dolore e allenamento, a non essere un uomo.
Il segreto è solo quello.
Solo quello.
Ricordare quei visi, tracciare il perimetro di quelle giornate adesso sarebbe come riparare un vecchio registratore, significherebbe ricalcare la storia su carta carbone e ossa, significherebbe dare voce alla memoria di una vita stracciata tra gas, terra, e sguardi di fango.
La memoria non potremo mai lasciarla alle spalle noi, ci basterà guardare il braccio.
La memoria non ha parole.
Ha due occhi, un cuore solo, e un numero sulla pelle.
La memoria non potremo mai lasciarla alle spalle noi, ci basterà guardare il braccio.
La memoria non ha parole.
Ha due occhi, un cuore solo, e un numero sulla pelle.
§ Anno 2003 – Carlo Mieli e simy* – §
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