Scritto da © taglioavvenuto - Lun, 17/01/2011 - 21:14
Se ne stava ad occhi fissi a guardare, dalla vetrata che formava la parete esterna del suo ufficio, il muro d’argilla cruda posato con una perizia muratoria d’altri tempi. Dai mattoni uniti solamente da calce e pozzolana oltre cinque secoli orsono, da quella posa in opera
quasi perfetta, solo due dei laterizi ad un verifica compiuta tanto accuratamente quanto insensatamente, rientravano infatti impercettibilmente rispetto alla superficie di oltre quattrocentocinquanta metri che costituiva l’intero suo campo visivo, gli arrivavano come si trattasse di vivi, le imprecazioni, le grida, le sollecitazioni di una moltitudine indistinta.
Macchie, di colore ripreso da indumenti grossolani, piedi, di capelli riparati appena da copricapo di carta povera, da braccia seminude, sprofondate e confuse con gli sterrati di bocche di cantiere sollevate agli argini, come creste oltre il livello delle fondamenta.
Quella serie di voci che si davano l’un l’altra, quel vocio battente, incuneandosi nei condotti auricolari come le prime file di un’onda sgranellata di cortei pacifisti, gli entrarono man mano nel cervello.
Una volta dentro i colori, le urla, invece di unirsi e coagularsi come una grande anfigonia, evitando deliberatamente contatti fra di esse cominciarono a riprodursi per partenogenesi.
Da urla strozzate, brevi come un’esclamazione, nascevano toraci annichiliti, al di sopra dei quali le arterie e vene del collo potevano contarsi l’una l’altra: cavi metallici non più univoci di bui antri d’ascensore per grattacieli di piccole città; dai colori bruni di terra scoppiavano, come i semi dell’amaranto, gambe tozze e alluci assolutamente sproporzionati alle statura delle parti di persone, spalle incise di nervi azzurri, e leonini muscoli pettorali; da voci sommesse schiene ricurve; da grandi baffi e facce irsute, ventri da pantagrueliche taverne.
Ognuna di queste membra spezzettate prendeva per mano il suo dialetto portandoselo dietro come un bimbo a cui insegnare il sentiero di casa, e si parlavano come da sempre, come se la loro lingua fosse l’unico mezzo rimasto di trasmissione del sapere. Così, c’era il torace aperto sul cuore, che interveniva nel dialogo puntuale come uno svizzero interrompendo il flusso continuo di domande e risposte, che parlava con il figlio in stretto marchigiano di montagna; c’era la mano nodosa colore del caffè torrefatto che ogni tanto si lasciava scappare uno strattone e una bestemmia con il vernacolo dei colli euganei; occhi protuberanti da bovino, disperati che pure quel lavoro stesse ormai per finire, a cui la lingua familiare stava sempre per sfuggire di mano; gambe dai polpacci bitorzoluti e alluci giganti lunghi quasi quanto il piede che ad ogni domanda inopportuna rispondevano scalciando, cercando di mirare al fondoschiena; muscoli pettorali che parevano saldati sullo sterno recalcitranti se dovevano rispondere alla minima, più innocente domanda.
Indifferentemente tutti, non attendevano altro che facesse buio.
Anche la persona che li stava osservando, disturbata in fondo da quelle continue divisioni , sperava, accendendosi una sigaretta dopo l’altra, che il perdurante proliferare terminasse.
Non che indugiasse sull’avvento del buio, né che una particolare categoria dei mostriciattoli prendesse il sopravvento eliminando le altre specificità, ma contrariamente a quanto era stato fino ad allora, che un qualche ente, uno qualsiasi, li facesse scomparire.
Intanto si preoccupava, aggrottava la fronte, temeva, che uno di loro s’aprisse la strada alla memoria, che allora si, si sarebbe verificato un danno permanente.
Invece, d’un tratto, s’accorse che qualcosa stava cambiando. La poca, residua luce del giorno che moriva scomparendo dall’intero spettro del muro, veniva sostituita da timidi fari di luce artificiale.
L’accensione dei quali, lasciando in ombra parti della perfezione antica appena screziata, ora faceva risaltare ciò che prima non aveva notato: l’enorme portone igneo contornato dalle lesene ripulite, al culmine delle quali inscurivano per smog i capitelli tuscanici e l’architrave sulla quale spiccava il blasone di chi il palazzo aveva voluto.
Con uno sforzo immane del pensiero forzò la serratura che teneva uniti i battenti ed aspettò, deluso che quella messa in bocca fosse l’ultima sigaretta del pacchetto, augurandosi che ogni gruppo degli sgorbi avesse un capopopolo, di vederli entrare e scomparire nei sotterranei.
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