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Rumore bianco

Più mercato, meno stato. E’ questa la formula magica che ha dato avvio al vero Untergang des Abendlandes (il tramonto dell’Occidente). Una formula innestata nei lontani anni ’80 del secolo passato, con l’infausto nome del suo artefice: Thatcherismo. Tanti assegnano oggi questo tramonto alla corruzione, all’abbattimento dei “valori” o degli “ideali”, o anche di Dio; altri ancora all’emergenza di altre potenze sulla faccia del mondo, ovvero al loro riarmo anche atomico, facendone una questione di forza muscolare e allontanando da sé l’amaro calice della verità, rimovendo cioè l’errore inoculato nelle sue fondamenta. L’errore che induce a ravvisare nello Stato il principe di tutti i mali: cioè a vedere nell’unico risultato accettabile di duemila anni di massacri, l’unico responsabile dei medesimi, invece dell’unico redentore. Quando gli uomini smettono di abbracciare un progetto, tale per le loro vite da insignirle di un significato e conferirle un senso di marcia, una direzione, ecco che si abbandonano ad una cieca smania di possesso, di razzia, in cui un cupo imperio dell’oggetto sul soggetto fa ritenere a quest’ultimo che il dominio egoistico e bruto sulla materia coincida col vero senso delle cose e con il compito escatologico del genere umano. Ed è così che, sotto il peso di un equivoco grandioso ed impervio come una roccia, essi comprendono come un auspicio (il miglioramento della propria condizione socio-economica) il senso di morte soffiato loro incontro dagli oggetti e dal loro possesso. E’ come un rumore sordo e accecante ciò che gli fischia nelle orecchie il diktat irresistibile dell’accumulo e della razzia. E’ PRENDERE l’appello ineludibile cui debbono soggiacere, e non c’è verso ne argomentazione in grado di distogliere il loro sguardo reso cupido, ferino, irresponsabile da un desiderio che non è se non il rovescio mortale del vuoto di senso spalancatosi nelle loro anime scisse dalla propria subiettività per un eccesso di realismo, di gretta obbiettività.
 
E’ il Rumore bianco dell’omonimo romanzo di Don De Lillo, lo scrittore italo-americano del Postmodern. E’ la morte quel rumore sinistro che rimbomba dagli scricchiolii dei carrelli nei supermercati, al precipitante coacervo domestico delle cose molteplici e de-significate che ne ostacolano l’usufrutto fino al soffocamento. La paura della morte, che si evidenzia come una specie di suo stesso sintomo, non è altro che il correlato dell’inutile ammucchiata di plastica del possesso, inteso come un succedaneo di Dio. Un Dio che non può esistere, essendone la negazione materiale, essendo l’oggetto che nega il soggetto, e che induce perciò ad un pazzo asservimento a quella sua panica dominante del “prendere possesso” in cui alita la morte- la morte come pulsione di morte di chi è totalmente saziato nei desideri e altrettanto totalmente annientato nella sua umanità, ideale e ontologica.
 
 
 
 
 

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