Scritto da © ferdigiordano - Sab, 07/04/2012 - 11:08
Passò come un rostro discrimina argilla dai piedi della pietra. Passò tra di noi scavandoci un solco che a tutt’oggi matura un pensiero. E’ il vomere gioioso della sua intelligenza che rompe le zolle al desiderio. Che forza la spinge!, ed era piccola di corpo e di gambe. Una cineseria con proporzioni filiformi.
Ce n’erano altre, certo, l’avrò anche detto, ma era come lasciare la vela per darsi forza col remo.
Attraversava fiumi d’uomini rudi opposta agli errori dell’impeto. Quasi una diga. Di più ancora: la logica femminile sagace e tagliente.
Nessuno la dirà mai bella, né la si ricorda per un seno effervescente - a ben guardare, solo per quei glutei rutilanti da luna piena.
Brillante ed elastica, la voce era nuova di zecca: coniata con onomatopee irridenti. Monete di sillabe nuove, tronche di vocali, e silenzi con suoni che la luce non porta, nè si dovrebbe pretendere sbianchi.
Aveva gocce di sale nelle pupille. Un colore che a vederlo nemmeno diresti così trasparente. Un involucro sferico che a raggiera dal ceruleo al verde si aggrappava al tuo sguardo con un che della mano che solleva l’inciampo dal piede. Tirava via la fretta dal passo e ti facevi statua all’incirca per ore. Nessun orologio, ripeto, nessuna lancetta segnava il suo tempo e il tuo appariva frenato. Una sorta di labaro il ventre: vi nascemmo amanti a difesa da noi stessi.
Una donna, lo dico riandando ai suoi luoghi, di cui non cercammo l’appartenenza, che nessuno di noi si contese. Eravamo felici di averla tutti insieme senza che nessuno la possedesse.
Seduta, lì, ai piedi della Vittoria che spezza catene, scoperta di schiena alla luce degli occhi.
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