Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Mar, 06/09/2016 - 18:36
La donna giapponese scende la scalinata. Non è un presagio ma una coincidenza. L'avevo vista, al mattino con lo sguardo assonnato, nell' hotel, durante la colazione. Consumava il suo petit déjeuner con lo sguardo assente, lontano.
Non avevo fatto molto caso alle sue fattezze se non a quello sguardo che mi pareva vuoto, privo di luce. Ma la mia attenzione si era risvegliata quando l'avevo rivista sul metrò.
Sedeva composta nei suoi vestiti neri, con i guanti che le foderavano l'avambraccio e l'ombrellino per il sole appoggiato sulle ginocchia.
È normale durante il periodo estivo incrociare turisti ospiti dello stesso albergo. Per questo non avevo fatto caso più di tanto a quella singolare coincidenza, ed ero scivolato via lungo i miei passi. Ora la ritrovavo che scendeva la scalinata, con il viso coperto da un paio di occhiali scuri.
La folla spingeva all'ingresso del museo dove mi stavo dirigendo. Con la coda dell'occhio avevo visto la donna giapponese che infilava, con il suo passo minuto, una via laterale. Pensavo: “... soltanto allora potrai tornare sorridere”.
Durante il pranzo, un pasto consumato ad un tavolino di un bar, mentre assaporavo la rada ombra di un albero, battaglia persa contro un sole cocente, osservavo la facciata di un edificio Decò , e in particolare, in un istante in cui un ragazzo usciva dal portone del numero 15 di quella casa, le splendide fasce di legno lucido che contornavano il soffitto dell'androne piastrellato. Il passato aveva, in quell'istante, lanciato un suo sottile richiamo. Nell'istante successivo avevo scorto la famigliare figura della donna giapponese che entrava nel vecchio negozio di libri a fianco di quell'edificio.
Osservavo i volumi che quella vetrina conteneva ammantati da un velo di polvere, mi ero riproposto, terminato il pranzo, di curiosare tra quei libri usati, magari alla scoperta di qualcosa di interessante, quando vidi la mano dell'anziano proprietario che sfilava un piccolo libro in brossura, di color tabacco dal secondo scaffale. Il ripiano rimasto vuoto in quel punto sembrava una bocca priva di un dente.
Una decina di minuti dopo, la donna giapponese usciva dal negozio reggendo tra le mani quel libro.
Terminato il pranzo ero entrato nel negozio. L'anziano proprietario era seduto alla scrivania, dietro ad una pila di libri, intento a catalogarli.
“ Ha ancora una copia di quel libro che era sul secondo scaffale in vetrina ? ”
“ Un attimo che guardo...”
Era scivolato nel retrobottega e dopo un paio di minuti era emerso reggendo in mano tre libri.
“ Ne sono rimaste tre copie, due in spagnolo e una in francese. ”
“ Prendo quella in francese”
Tra le mani mi ero ritrovato “Moderato cantabile” della Marguerite Duras. Era una edizione numerata, e quella tra le mie mani era la numero 720 della collezione “La Petite Ourse”, del 19 febbraio 1960, stampata in Svizzera.
Sfogliandolo mi aveva colpito una breve frase di un dialogo, evidenziata da un sottile tratto a matita.
- Mon amour , c'est fini, je crois bien.
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Lei era seduta al mio fianco, uno stallo separava i nostri corpi, il porto e il mare.
Riuscivo a intravedere i suoi capelli neri e i suoi occhi. Tra le maglie di quel separè in legno dal sapore di montagna, avevo scorto il suo menù che il cameriere aveva appoggiato sul tavolo.
Le lettere dell' alfabeto greco si stagliavano dal bianco del foglio. Sola, ottemperava alla sua cena gustando del pesce accompagnato da una caraffa di vino bianco.
Il pensiero, come un circuito elettrico a volte fa degli strani scherzi. L'immagine del viso di Diana mi era subito balzata alla mente e avanzava a passi felini.
Ma quale era il mio nome? Quello di allora o quello di adesso?
La prima sequenza di quella carrellata mentale era un primo piano della sua camera, poi il suo sorriso, la sua mano che spostava una ciocca di capelli scarmigliati. Aleggiava anche il ricordo del suo profumo, e quella buffa fotografia in bianco e nero posta sotto il ripiano in cristallo del tavolo. Lei avrà avuto sei anni e giocava con il suo cane, un pastore bergamasco che era più alto di lei. Perché la mente ricuciva queste immagini del passato? Perché le abbinava a quella sconosciuta seduta al tavolo di fianco? L'unico legame possibile poteva essere la comune origine greca. Bastava ciò per spalancare le porte del pensiero? Era singolare che cosa avevano fatto scattare quelle poche scritte in greco.
La donna si era alzata dal tavolo. Era uscita a fumare una sigaretta. Avevo scorto il suo viso, la sua figura. Sorrideva. Il cameriere si era precipitato a sparecchiare il tavolo. C'erano numerose persone in attesa di cenare. L'anziano cameriere aveva ripreso il giovane dicendogli che la donna non aveva terminato di cenare. Si era assentata momentaneamente per fumare una sigaretta.
Immediata, come la mossa di un prestigiatore, una nuova tovaglia con le stoviglie era ricomparsa sul tavolo sotto lo sguardo severo dell'anziano cameriere che controllava quel giovane maldestro.
La donna era rientrata. Sorrideva assente. L'anziano cameriere l'aveva fatta accomodare sulla sedia e le aveva versato del vino nel bicchiere. Lei sorrideva con mestizia.
Per un istante i nostri sguardi si sono incrociati, accennando entrambi un sorriso di consuetudine mentre la notte avvolgeva il brusio dei commensali e il suo menù scivolava a terra.
E nel medesimo istante, il viso di Diana, comparso nella mia mente, sussurrava “ Kalinychta”.
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No, non lo dimentico.
Il suo sguardo mi è rimasto impresso anche se l'ho vista per pochi minuti. Era seduta sul metrò, e le lacrime le colavano sul viso, mentre il suo sguardo era fisso sul sedile di fronte. Aveva provato ad asciugarle maldestramente con la mano, mentre continuava il suo silenzioso pianto. Chissà quale sofferenza generava quel pianto.
Ma quel pianto mi aveva portato lontano. Lo so che il pensiero si attorciglia su strani ricordi, li rivitalizza nei momenti più inconsueti, inconsapevoli come la notte, lungo i labirinti del tempo.
Era il compleanno della sorella di un mio amico, e la festa si svolgeva lungo le trame di un pomeriggio stanco, lei era stata lasciata dal suo ragazzo proprio quel giorno. Piangeva, disperatamente piangeva, e quel pianto era un tuono, un boato di selvaggia disperazione che schiaffeggiava l'anima. Una valanga di sofferenza che come un'edera aggrediva i presenti, le pareti della stanza e l'intera casa.
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L'interno della Cattedrale è semideserto. Un paio di persone inginocchiate sono raccolte nella dimensione della preghiera. Il silenzio ricopre ogni crepa. C'è un senso di raccoglimento, una separazione dal chiasso ludico del mondo esterno.
L'anziana donna avanza con fatica, a piccoli passi, verso la pala d'altare della Vergine Maria.
Il silenzio accompagna i suoi passi. La scalinata che porta all'altare della Madonna si apre a semicerchio.
La donna sale i gradini appoggiandosi al mancorrente. Scorgi la sua fatica nel progredire verso l'altare. In un istante pensi a tutti gli anni che hanno accompagnato la sua vita. La immagini bambina, poi ragazza e poi donna. E poi, lentamente, nell'accumulo delle sue primavere, dove le rughe sono come tacche sull'albero maestro della vita.
Sopra l'altare, l'immagine della Madonna che sorride è tutto un tripudio di oro. Dalla massiccia cornice che contiene il dipinto, alle icone che lo attorniano, rigorosamente inserite anch'esse in cornici dorate.
Con i ceri accesi, disposti sull'altare, ai piedi della scalinata è tutto un gran scintillio, una nebbia dorata.
La donna si segna la fronte con il segno della croce. Appoggia la borsa sull'altare e ne estrae una fotografia. La bacia e la porge alla Madonna in attesa di una silenziosa benedizione, poi la posa sull'altare. Reclina il capo e recita una litania. Le parole si disperdono sulla volta della chiesa.
Poi estrae dalla borsa un mazzo di chiavi, le porge alla Vergine Maria e continua a pregare.
Due turisti con indosso le magliette dell'Hard Rock cafe passeggiano lungo la navata laterale. Il silenzio è rotto dal suono dei loro passi. La donna giapponese è seduta all'ultimo banco. È immobile, il suo sguardo fissa il silenzio, mentre il suono delle campane invade improvviso lo spazio del giorno.
Fuori il mondo esplode di suoni.
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