Non avresti dovuto farlo, quella sera; non avresti dovuto dar vita a quella scena, iniziare quella rappresentazione. Ed io non avrei dovuto sedermi su quell’esile sedia di plastica.
Il buio tardava a venire e il palco iniziava già ad animarsi. Ti avevo vista uscire da dietro le quinte, sollevarti su quell’aerea struttura tubolare, e lì sdraiarti, sospesa sul pubblico.
Poi avevi smesso i tuoi panni per entrare in quelli del personaggio, ed io seguivo incantato ogni tuo gesto.
Attendevo allo sviluppo degli eventi colpito da un folle girotondo emotivo. Era il tuo sguardo a catturare la mia attenzione, mi teneva inchiodato ai tuoi passi, allo sviluppo della vicenda. Per un breve istante – per un attimo soltanto – riuscivi ad anticipare, con la tua espressione, i momenti successivi.
Avevo cercato, tra le pagine della mia memoria, il primo luogo in cui ti avevo vista recitare. Era sicuramente stato durante un “Aperitivo con l’autore e letture d’attore” svolto alla biblioteca civica. Recitavi alcune pagine di un libro; eri comparsa dal fondo della sala, attraversando il pubblico, inseguendo la tua voce.
Ti avevo poi rivista in teatro mentre rappresentavi “Il rossetto sull’ostia” e, durante un monologo, la tua voce e il tuo sguardo mi avevano completamente ammaliato. Mentre recitavi, come un bambino trattenevo il respiro, quasi per paura che la scena dovesse improvvisamente interrompersi.
Avresti potuto (con eguale bravura) svolgere altri mestieri, ma hai scelto quello più difficile: dar fiato a personaggi, far vivere storie lontane.
Mi era nuovamente apparso il tuo viso, incontrato al salone del libro di Torino, quando, durante un convegno, seduta a breve distanza da me (dopo un attimo di incertezza, ti avevo riconosciuta) indicandoti, ho scandito in tono interrogativo il tuo nome. E tu hai assentito, sollevando il capo con gioia, quasi a voler dire:
- Sì, sono io, eccomi. -
E sul tuo viso si è acceso lo stesso sorriso dei tuoi personaggi; allora, i loro volti si sono sovrapposti al tuo. Ho pensato a te, che al chiuso di una camera, sul palco del teatro, davanti ad uno specchio, seduta in tram, ripetevi o leggevi le parti dei tuoi ruoli; ho pensato a quel preciso istante in cui il personaggio si staccava dalla pagina ed entrava in te, e tu in lui.
Ho visto, attorno a te, affacciarsi una galleria di amici immaginari, eterei e nel contempo mai così reali. Alcuni simpatici, altri dispettosi o saccenti, come d'altronde lo sono le persone che attorniano il nostro vivere quotidiano.
Ti ho immaginata in certe giornate dell’anno (in particolare d’inverno) camminare in loro compagnia sui tuoi consueti percorsi urbani, colpita da un vivido raggio di sole.
Non credo che i tuoi personaggi si possano indossare, a secondo dell’umore del momento, come altrettanti abiti tolti da un armadio; penso bensì che saltino fuori nei momenti più impensati, accompagnando così i tuoi stati d’animo.
Di certo, ti chiederai che cosa sono questi vaneggiamenti di una persona che, poi, nemmeno conosci. Tranquillizzati, nulla di grave. Si tratta probabilmente delle emozioni di questa serata che continuano a scuotere i miei pensieri, a ronzare dentro, a fluire e travasare fuori con parole che rotolano a terra.
Ora, mentre mi aggiro insonne tra le stanze della mia abitazione, accenderò il videoregistratore, inserirò una videocassetta di una soap opera, così potrò finalmente addormentami.
- Blog di Rinaldo Ambrosia
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