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L'artista

Walking, disegno dell'autore

Sembrava il suono del mare. Usciva ed entrava da quella superficie aggredita da tratti di colore. Un'emozione improvvisa era quell'immagine radiografica che testimoniava l'evento.

   Era una storia, un'analisi diagnostica di un passato, di un disagio, di una sofferenza che reclamava l'oblio. L'artista l'idea l'aveva metabolizzata al ritmo lento del pensiero, immerso nel suo vivere quotidiano. L'accumulo, dei giorni, degli anni, saturava il suo esistere e la sua vita entrava e usciva dalle sue opere come un intervento di luce sul colore. E allora, nel rigurgito dei suoi giorni, i suoni, le immagini diventavano elaborazioni espressive.

   Il pensiero sedimentava come calcificazione e poi sfociava in un'opera. Il supporto, i colori, i materiali erano un compendio casuale a questa forte pulsione interiore che lo spingeva a concretizzare in forma artistica. Era una dannazione, un pensiero assillante, un bisogno vitale. Cercava di descrivere, di rappresentare il suo mondo interiore che animava le sue vene con tutto ciò che trovava attorno a sé.

   La prima radiografia la ricordava perfettamente. Era in viaggio, l'aveva raccolta nei pressi dell'ospedale di Praga, sulle rive della Moldava. Qualcuno l'aveva gettata a terra (per rabbia, disperazione?), l'aveva osservata in controluce. Una piccola chiazza scura era visibile sul polmone. C'era anche l'impronta di un tacco di scarpa e delle striature di fango. Aveva portato a casa quella testimonianza di uno sconosciuto e l'aveva appesa nel suo studio.

   Lì, era rimasta per mesi. Ogni tanto la guardava silenzioso. Un giorno vi aveva schizzato dei segni con un pastello a olio. Poi aveva tracciato un labirinto che si fermava al centro della lastra. Su quel labirinto aveva appuntato dei nomi con delle date. Sicuramente per il proprietario della radiografia il suo anno in corso sarà stato costellato di date. L'inizio dei sintomi, la prima visita medica seguita dal primo esame diagnostico (questo?). E poi chissà quanti altri.

   Aveva rigirato e rigirato la lastra, quel supporto sottile che racchiudeva una storia reale, un percorso di vita a lui sconosciuto. Una sera vi aveva scritto una frase.

Mi chiamo Jan Palach e sono morto a Praga, durante la Primavera di Praga”.

   Sì, pensava che il contributo di un artista fosse anche quello di testimoniare frammenti di Storia.

Man mano che lavorava sulle lastre radiografiche, con interventi di colore e di parole, minimi accenni di storie si dipanavano da soggetti sconosciuti di cui lui possedeva e stringeva in pugno l'immagine dei loro corpi. Di radiografia in radiografia era così iniziato quel nuovo periodo della sua arte.

   I critici mormoravano entusiasti, ma parlare di una nuova corrente artistica era prematuro. I galleristi, inizialmente sconcertati, si erano arresi a questo artista che faceva piovere su di loro quattrini come un Paperon de Paperoni. E via ad allestire mostre su mostre. New York, Londra, Parigi, Milano, Tokyo, Sidney.

   Il mercato fagocitava tutto, e se un artista famoso cambiava la sua modalità espressiva, la novità attirava i collezionisti come una calamita.

   Nella notte fonda, chiuso nel suo studio (una barriera insuperabile) l'artista lavorava sulle lastre radiografiche. Tutto un universo ospedaliero si era riversato tra quei pennelli, tele e barattoli di colore. Creava accenni di microstorie, interrotte o sospese a secondo dell'ispirazione o della ricerca che stava svolgendo. La creatività è un'amante sfuggente, si dona e si nega nel medesimo tempo. Ma per lui la dimensione tempo era sconosciuta. 

   Quando lavorava su una nuova opera, anche il cibo e il sonno diventavano superflui. Era il fuoco interiore che lo spingeva all'ossessione creativa.

   Lavorava su quelle radiografie come se stesse scoprendo nuove realtà. Era una ricerca cieca. A volte, calcoli geometrici invadevano le immagini. Spazi in miniatura traguardati da linee di congiunzione, da interventi di colore. Lo aveva affascinato la denominazione della “linea aspra” del femore. Lungo la “linea aspra” aveva disegnato, con numerosi puntini, una piccola costellazione, un frammento di universo.

 

Era stata quella sera che sulla sua radiografia lombo sacrale aveva isolato e ritagliato un frammento di vertebre lombari e poi era intervenuto con il colore.

E in basso a destra, un uomo, in maniche di camicia, osservava quelle tre vertebre avvolte da linee di colore. Il titolo era “Walking” e quella sarebbe stata la sua ultima opera.

 

Tutto ciò che faceva aveva un sapore vano e inconsistente. Tutta quella sofferenza, racchiusa nelle sue opere lo aveva lentamente intossicato. C'era un universo di persone al di fuori del suo studio, una umanità viva che attendeva.

   Aveva deciso, sarebbe partito per il Sudafrica. Il suo amico Maurizio, che da anni lavorava con un gruppo di Cooperazione Internazionale, e si stava occupando di un progetto per un pozzo per l'estrazione dell'acqua, lo aveva accolto con entusiasmo e inserito in uno dei gruppi operativi, e lui era convinto che in quel contesto una chiave inglese valesse più di una tavolozza di colori.

 

 

 

 

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