Scritto da © Marika - Gio, 13/10/2011 - 07:17
Ti scrissi alla soglia di una china, incolume da quel brivido di speranza. L'aria sotto la mia finestra era paziente e si abbandonava alle mosse, scaturigini della brezza mattutina, si divincolava negli intrecci del vento per tuffarsi alle volte dei rami. Scuoteva foglie, frutti, fiori che si inanellavano in quelle forme d'aria. A volte consistente e profonda, a volte così liscia e contorta nel disperdersi fin sopra quelle colline dal collo fumoso. Imperanti testimoni di terra, sassi, rocce che venivano giù quasi strisciando per le costole bolse e sfilacciate. Tu rimugini come quella pietra soffoca al peso del suo fiato, sconcertata nelle sue incisioni. Ma nel silenzio anche un pensiero può far rumore ...e farti girare la testa. Arrivi a voler strozzare nelle caviglie una voglia mobile, di cammino, impostare sulle spalle la vita fin dai suoi tendini improntati, spargere l'acqua e i semi su quel corpo incollato dal sudore. E invece, a occhi conversi rifugiavi nel piacere dei miei seni inerti. Nasceva la secrezione che faceva andare in cancrena ogni gestualità più spontanea, ogni finzione rubata. Il vestito non ammaliava, né scuciva l'eco della malinconia. Non parlare di quel momento, e allora forse sarebbe meglio ... rimbalzare fino a cuocermi la schiena su e giù, e poi strofinarmi le unghie nel ghiaccio per dissolvere la pulsione nella freddezza. Dire che diventavo ambra e ruggine, ancora ferro, solfato, solfa all'udito oramai quella canzone vecchia, spinta nelle mie cartilagini elastiche, sì! Sono ombre deposte nell'ossaio. Mi contiene questa massa putrida di spie striscianti che bussano fra le dita e ogni tanto lamenta note parlate. No! Perché l'uomo è così sporco nel suo orgoglio, incapace di accogliere un universo colorato che nutre altezze di un'emozione superlativa, in bocca. Incapace di dar forma alla musica. Le mani ...le mani sì, sono capaci di misurare, anche le dita servono a dilatare, spingere, chiudere. Si aprono. Il segreto sta anche nel farle parlare apertamente, converrebbe essere forma, soltanto. Un vaso è una forma. La mano può sentirsi invasata, può contenere. Parla nell'abbandono cinetico delle sue parti, come un'onda in una scatola. Nel poco spazio che può riempire riesce a disperdersi, sempre diversa, sempre più lontana dall'esserci. Essere dentro, o fuori. Non ne vedo differenza, se sceglie di ammutolirsi. Non sento più te che parlavi, sembravi -come tutti i vivi- impastato di tonsille bucate. E quell'onda finisce. Dove una parola esce, entra polvere corrosiva, quella di un mondo dove si vedono solo immagini sideree. Impenetrabile la verità dei fatti, sono tutti mossi da decisioni alte, cucite in progetti metafisici, e l'immagine si libera del vestito, diventa opercolo, si buca. Il monaco va in Baviera, e la monaca fa la farfalla disponibile. Se solo il vestito significasse copertura, non abbellimento, allora forse mi sentirei meno spoglia. E forse quel vestito mi aiuterebbe a ricordarti.
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