Scritto da © Hjeronimus - Mar, 08/05/2012 - 20:46
Lo so. Ti eri invaghita, soltanto invaghita, di me. E della mia catastrofe. D’altro canto, non eri stata tu a dirlo: tutti i miei amori sono disperati?. Ti bastava vedermi, così, ogni tanto, sbaciucchiarsi un po’, toccarsi, strofinarsi, aprirmi la porta riccioluta del desiderio… e basta là.
Ma non era lo stesso, per me. Io non ero, non sono così… non me ne fregava un accidenti di scoparti, o di fare l’acrobata dei training erotici. Io avevo un progetto ideale, e volevo concretizzarlo con un amore more geometrico. Una geometria interiore, sentimentale e “porno” insieme, che ci tirasse insieme fuori dall’oblio borghese in cui eravamo affossati, tu e io. Cioè dalla noia perbenista e strangolante “comment il faut”, in cui vivevamo alienati e infelici, attraverso la fuga e, sì, perché no?, la valvola liberatoria della carne, come un martello trasgressivo sull’incudine della mortale quotidianità. Sì, godersela in fuga, trascinarci come porcellini in una lussuria bassa sporca, suina, così spregevole da liquidare per sempre ogni ipotesi di pentimento o di retromarcia.
Ma la cosa era impossibile. Avrei dovuto capirlo prima…. Il mio ideale, l’ideale in cui avrei voluto coinvolgerti, era quello di non essere me stesso, di portarmi e portarti fuori dall’io… no, non dall’io borghese e fasullo delle nostre esistenze in incognito… no. Dall’io vero, il disperato di cui eri invaghita e che, ahimè, non amavi. Come potevo solo pensare di trascinarti in una tale avventura? Come potevo credere nell’ideale di scappare da me stesso attraverso un amore suscitato proprio dal medesimo? Primo, era assurdo l’ideale di non essere se stessi per un singolo e realizzarlo tramite un altro (sia pure un'altra, un’innamorata). E secondo, ancora più assurdo, se anche avesse potuto funzionare, svignarsela da se stessi con qualcuno che l’amasse (ma così non era) e che sarebbe rimasto ferito da non riconoscerlo più grazie proprio al suo aiuto, alla sua intercessione…E le due risposte erano: che tu non potevi, dacché non mi amavi; e non avresti comunque potuto, se anche mi avessi amato.
È l’ideale che è sbagliato: non essere se stessi, non volerlo essere. Sfuggirsi, eludersi, cercare una quiete impossibile al di là del muro che il Sé rappresenta al Sé. E tanto più era sbagliato con te, attraverso te, in un ultimo, estremo, disperato anelito di piacersi alla e della propria vita… Già, ma la vita non è questo, non è l’ideale e l’ideale non è sfuggirle, non lasciarsi agguantare dalla vita… Avrei magari dovuto aver più fede nella carne, lasciare che i sensi sopravanzassero le speranze, che l’ideale, pur erroneo, s’atrofizzasse sotto le lenzuola; che noi ci avviluppassimo come anguille l’un l’altra, che ci leccassimo, ci divorassimo, rimescolando e ingurgitando i nostri liquidi reciproci… Ahimè, è solo il ricordo che brucia ad avvampare nelle mie parole… e ricadendoci tormentosamente sopra, non faccio che ri-commettere l’ennesima volta lo stesso errore: non voglio essere me stesso…
Ma non era lo stesso, per me. Io non ero, non sono così… non me ne fregava un accidenti di scoparti, o di fare l’acrobata dei training erotici. Io avevo un progetto ideale, e volevo concretizzarlo con un amore more geometrico. Una geometria interiore, sentimentale e “porno” insieme, che ci tirasse insieme fuori dall’oblio borghese in cui eravamo affossati, tu e io. Cioè dalla noia perbenista e strangolante “comment il faut”, in cui vivevamo alienati e infelici, attraverso la fuga e, sì, perché no?, la valvola liberatoria della carne, come un martello trasgressivo sull’incudine della mortale quotidianità. Sì, godersela in fuga, trascinarci come porcellini in una lussuria bassa sporca, suina, così spregevole da liquidare per sempre ogni ipotesi di pentimento o di retromarcia.
Ma la cosa era impossibile. Avrei dovuto capirlo prima…. Il mio ideale, l’ideale in cui avrei voluto coinvolgerti, era quello di non essere me stesso, di portarmi e portarti fuori dall’io… no, non dall’io borghese e fasullo delle nostre esistenze in incognito… no. Dall’io vero, il disperato di cui eri invaghita e che, ahimè, non amavi. Come potevo solo pensare di trascinarti in una tale avventura? Come potevo credere nell’ideale di scappare da me stesso attraverso un amore suscitato proprio dal medesimo? Primo, era assurdo l’ideale di non essere se stessi per un singolo e realizzarlo tramite un altro (sia pure un'altra, un’innamorata). E secondo, ancora più assurdo, se anche avesse potuto funzionare, svignarsela da se stessi con qualcuno che l’amasse (ma così non era) e che sarebbe rimasto ferito da non riconoscerlo più grazie proprio al suo aiuto, alla sua intercessione…E le due risposte erano: che tu non potevi, dacché non mi amavi; e non avresti comunque potuto, se anche mi avessi amato.
È l’ideale che è sbagliato: non essere se stessi, non volerlo essere. Sfuggirsi, eludersi, cercare una quiete impossibile al di là del muro che il Sé rappresenta al Sé. E tanto più era sbagliato con te, attraverso te, in un ultimo, estremo, disperato anelito di piacersi alla e della propria vita… Già, ma la vita non è questo, non è l’ideale e l’ideale non è sfuggirle, non lasciarsi agguantare dalla vita… Avrei magari dovuto aver più fede nella carne, lasciare che i sensi sopravanzassero le speranze, che l’ideale, pur erroneo, s’atrofizzasse sotto le lenzuola; che noi ci avviluppassimo come anguille l’un l’altra, che ci leccassimo, ci divorassimo, rimescolando e ingurgitando i nostri liquidi reciproci… Ahimè, è solo il ricordo che brucia ad avvampare nelle mie parole… e ricadendoci tormentosamente sopra, non faccio che ri-commettere l’ennesima volta lo stesso errore: non voglio essere me stesso…
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