Scritto da © Hjeronimus - Lun, 22/11/2010 - 18:09
Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Noi, corridori inutili del secolo ventunesimo, ci affanniamo dietro una urgenza improrogabile che non è invece urgente di niente. Così siamo convinti del senso e della validità della nostra corsa, e siamo altresì fermi
nel ritenerla indispensabile, nel ritenere che questa e non altri sia la legge che presiede essenzialmente al nostro agire, al nostro esserci, al nostro fare nella maestà planetaria dell’essere. Crediamo di dover fare così, e ci precipitiamo di conseguenza nel delirio quotidiano di un onere senza fine, nella lacerante cornice d’un panorama offeso e snaturato dai traffici, gli inquinamenti, la meteorologia impazzita, la pioggia acida, i cibi manipolati…
Basta… basta correre… bisogna rallentare, fare una sosta, costruire uno straccio di ragionamento sulla nostra olimpiade, prima di continuarla… I nostri moti non valgono comunque nulla, tutti i nostri sforzi sono predestinati e quando cadranno si vedrà bene che non erano qualcosa, che non servivano a nulla, che nessuno sarà frodato di alcunché dalla nostra inettitudine, e che questa era già prima, prima di diventare inetti. La morte toglie definitivamente di mezzo il pregiudizio della necessità e del “galoppatoio” quotidiano in cui è ingabbiata; così, chi esce dalle “graduatorie”, sembrerà non esserci mai entrato, e per salvare invece il pregiudizio che lo teneva in gara, si farà appunto conto che così fosse, che non fosse mai stato iscritto.
Diciamo spesso: Ho molto da fare. Ho un sacco di cose da fare. Non ho mai tempo. Eccetera. Ma non è vero, non è così. Non c’è davvero mai niente da fare e tutto il carosello si riduce all’avvilente e piccolo imbroglio di creare confusione tra vita e morte e ritenere così di trarre quest’ultima in inganno – come fosse concepibile raggirare i nostri misteriosi e delicati processi organici con un escamotage verbale, profondamente estraneo all’universo cellulare di cui siamo composti e in cui ogni singola cellula, presa per sé, non lo sa neanche di appartenere ad un altro soggetto, insieme agli altri miliardi di consorelle della sua colonia.
Noi dovremmo solo pensare e poi cercare per quanto possibile di secondare e soddisfare il richiamo pre e post-storico che ci viene dall’abisso delle nostre viscere.
Invece dobbiamo correre, ogni giorno, tutto il giorno. Correre dietro ai soldi, ahimè. Dietro proprio, cioè, la mascherina dissimulatoria della pulsione di morte rimossa che anima le nostre paure e nega infine, invece, l’unico verosimile conforto, la trascendenza.
Già, ma cosa dire fare disporre della trascendenza?
Io considero la trascendenza qualcosa di amaro, di pessimista e di oscuro alla ragione ed all’autocoscienza umane. Nondimeno però un fomite, anzi, una sorgente di senso alle stesse. Perché è questo essere altro da noi (anzi, da me), che in un certo senso ci mette in gioco dialetticamente. Non c’è, non si vede altra chance dialettica allo status di “io” che abbiamo in sorte. Il mondo è puro Ego, è “egologico”, e come tale non ha altro rapporto, fuori di questa purezza, che con l’oscura trascendenza. Il resto, l’esser fatti (e di carne!) in un mondo (pseudo) obiettivo – e che per altro contiene anche la morte (e cioè quella “mia”) – va alle pulsioni, ai bruti e ai loro dannati soldi.
La trascendenza è (oscuramente) dialettica all’essere (che non può esser altri che “io che lo nomino”), e la vita, il mondo e la “sua” morte non gli competono. E’ forse l’errore più macroscopico delle nostre miopi metafisiche: mettere in connessione il trascendentale (che è soggettivo) con la morte (momento dell’essere-nel-mondo storico-oggettivo). La trascendenza è tale in quanto a-storica. E noi fiutiamo la sua inevitabilità proprio perché, invece, siamo “storici”, fatti di tempo. E non sarebbe ammissibile l’esistenza del tempo, senza una sorta di anti-tempo che la sostenga, senza un suo antesignano dialettico.
Così che io esisto all’interno della struttura del tempo grazie ai contrafforti dell’oscura trascendenza.
Già Kant aveva percepito, e quindi dimostrato (con la logica e la sua scienza epistemologica, di cui non dubitava) l’impossibilità di conoscere davvero gli oggetti in sé. E di qui aveva tratto la fatale conseguenza “trascendentale”: che il conoscere è assolutamente relegato al sistema di chi conosce e il sapere non è se non un sapere di sapere, quindi un sapere di sé. Come dicevamo, l’obiettività è un’illusione, una Fata Morgana della sola apparenza della cosiddetta realtà. Questa apparenza trova legittimità all’interno della “scatola magica” del linguaggio, di cui “solo io”, e solo qui e ora, posso disporre. Ecco quindi come qualmente si dispieghi sotto i nostri stessi occhi l’unica realtà reale che i nostri sensi consentono della appercezione del mondo: quella del rapporto trascendentale. La chiave di volta di tutto ciò è l’episteme, cioè la grandiosa Genesi del sapere concepita, con una tale acutezza da rasentare il sovrannaturale, dai grandi Padri Greci. I quali, pur sostenitori della obiettività del reale, produssero questo doppione della stessa, destinato a generare a sua volta questa specie di super-acceleratore d’umanità che all’oggi si chiama scienza. Poi loro avevano il loro Pantheon per la trascendenza, o il mondo platonico delle idee – poco importava la conseguenza ultima della loro invenzione; il loro compito grandioso lo avevano assolto già creandola: l’episteme è come una seconda nascita del linguaggio.
Ecco, un tale sulla spiaggia raccoglie una pietra che l’ha stuzzicato con le sue venature variopinte. Da un lato si sente affascinato da quel gioco di variazioni, magari millenario, che l’ha scolpita tale e quale, quale ora lui la vede. Poi la considera per ciò che è (?), pensa ai miliardi di miliardi di miliardi di pietre, simili se non identiche a quella, che l’universo-mondo contiene, e la restituisce alle onde, onde proviene. Non considera problematico ciò che ha fatto, anzi non considera alcunché. Il figlio se ne rammarica: era bella quella pietra! Ma lui è sicuro del suo: ci sono in realtà miliardi di miliardi di miliardi eccetera di pietre belle altrettanto e magari più di quella.
Ecco. Perciò l’ha gettata, perciò se n’è infischiato.
Così la trappola dell’evidenza scatta e abbindola la coscienza; così la più vieta ovvietà tiranneggia sul celebrato arbitrio di quella e anzi l’attrae nell’abisso dell’obiettività, della sua ingannevole apparenza. Non ci sono, in realtà, altre pietre al mondo, né loro splendore, se non quella che ha sedotto e commosso, quando le passavi accanto, la tua, come dire?… la tua quiddità. Non puoi sapere cos’è quella “cosa”, né, men che meno, perché l’hai raccolta e ammirata. Ma l’hai fatto, avviando così il motore della trascendenza, per cui quella non è già più la pietra, la cosa inconoscibile, impenetrabile, refrattaria in quanto cosa, che hai raccolto, ma uno iato, un eone del tuo sentire, una cellula trascendentale di quel rapporto per cui tu stai al mondo come questi sta alla tua interpretazione del mondo e senza di che lui stesso sarebbe estinto.
L’attrazione estetica ha determinato l’esistenza, fra miliardi di miliardi, di quella umile pietra solinga ed essa è entrata nel circolo della esistenza e della trascendenza e della “realtà” infine, che non c’è se non grazie al testimone, qui, della testimonianza di quel tale.
Noi non siamo niente, se non l’atto trascendentale di raccogliere una cosa ed elevarla al rango di cosa. Noi possiamo indire la cosalità, fra miliardi di miliardi di pietre imperscrutabili, di quella scelta a casaccio sulla spiaggia. Possiamo dire: “questa è la pietra!”, e rimetterla in corso nei destini postumi di coloro che la erediteranno, di quelli che diranno “pietra” riconoscendola, la parola non il fenomeno, escludendo tutti gli altri miliardi di miliardi…
»
- Blog di Hjeronimus
- Login o registrati per inviare commenti
- 1074 letture