A piedi nudi (L'altra) | Arte | baluba | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

To prevent automated spam submissions leave this field empty.

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • laprincipessascalza
  • Peppo
  • davide marchese
  • Pio Veforte
  • Gloria Fiorani

A piedi nudi (L'altra)

La cosa apparve, ingigantì, mi lasciò a distruggermi. Ero già morto.

Non dovresti accarezzarmi. Ritardi l'agonia.

Spasimi. Dietro al cadavere quando ci vorrebbe un pianto.

Adesso piango, addosso al tuo comò. Fresco di ciliegio.

Casse, cassetti di piccioli cui ci siamo appesi, giorno dopo giorno.

 

Lo vuoi ballare un crocevia di tango, gli stivali tra i miei

tacco e la punta, punta e il tacco, senti, come rimbomba anche il legno dell'impianto?

Preferisci no. È bello il tango, lascia di ferite.

A piedi nudi?

Delizioso, a cosa serve?

 

Si erano svegliati da qualche minuto Evelina e Jorge, rimanendo in un completo silenzio.

Lei bionda, evanescente, alta un'inezia più di uno e settanta, i capelli rovinati dalle punte non tagliate, appena oltre le spalle, occhi scuri incavati nel viso smunto di donna in attesa ancora di fiorire, odore di non lavato, di sesso in ogni parte del corpo.

Appena aveva scoperto che anche Jorge stava aprendo gli occhi, aveva allungato una mano a stringere la sua. Erano rimasti così, a parlarsi dentro guardando il soffitto grigioazzurro di quella stanza che costava solo cinque franchi svizzeri a decade, le spese delle utenze, lasciata a lui da un amico ex fotografo tornato temporaneamente a Lima dalla famiglia per l'aggravarsi della salute della madre.

Era una stanza ad angolo all'ultimo piano, il quinto, di un caseggiato popolare. Era stato costruito a inizio anni settanta in quella parte della cittadina in prossimità della Forèt de Salins considerata ancora oggi di estrema periferia, per sostituire le baraccopoli per immigrati italiani e turchi chiamati a svolgere lavori che gli operai svizzeri da tempo rifiutavano.

Per questo motivo era stato suddiviso a stanze. Il bagno, consistente in una turca e un lavandino, era unico per ogni piano, al termine del corridoio. Cinque in tutto per circa quattrocento persone nei periodi di massimo flusso.

Jorge era uraguagio di nascita, di famiglia di origini molisane uraguagia da due generazioni; le ascendenze di Evelina si perdevano tra tutte le migrazioni europee in Argentina e l'incontroscontro con le Pampas.

La pelle della donna era bianco latte, i soli peli visibili erano quelli del pube, delle ascelle, stranamente neri ed arricciati e, due per ogni areola biondi, uno sotto uno sopra i capezzoli.

L'uomo al contrario era tutto scuro, dalle punte dei piedi agli occhi, fino alla capigliatura, ora, per effetto del passare del tempo, brizzolata.

Correvano trent'anni circa, tra i due. Lui ne diceva cinquantanove, lei ventotto.

“Non ti ho vista ierisera e nemmeno ierilaltrosera e nemmeno la seraprimaancora.”

“A casa, e un ballo.” Sospirò Evelina.

“A fare l'amore con qualcun altro.” Disse lui.

“Non ho fatto l'amore, ho cenato, messo a letto Francisca, pulito la casa, lavato per loro e per me . E poi si, ballato. Ma perché ogni volta che non mi trovi alla solita nostra balera devi farmi tutte queste storie?”

“Tra di noi ci deve essere la verità, io cerco la verità, anche dolorosa. Non posso farne a meno. Non saprei che farmene della mia vita e di quella degli altri se non cercassi la verità.”

“Bravo stronzo.”

Appena pronunciata la sentenza, secondo lei inappellabile, Evelina, nel frattempo giratasi di centottanta gradi, quel mattino sorrise per la prima volta; sorrise in faccia a Jorge, beffarda, poi scese lenta con le labbra sul suo capezzolo destro e cominciò a succhiarglielo e a morderglielo facendoselo infine sparire in bocca.

“Sporco traditore.” Singhiozzò strisciandogli col petto sul petto per non lasciargli in pace nemmeno l'altro.

L'uomo si umettò la bocca, aspettandosi l'insinuarsi delle sue labbra da un momento all'altro. Liberò la mano, piegò le altre dita sul palmo, e i nodi delle falangi nodose del medio, irrimediabilmente deteriorato dalla pozzolana, cercarono tra la fragile morbidezza delle cosce di Evelina, tra l'ano e le grandi labbra, una verità provvisoria per quella donna di cui non poteva più fare a meno.

“Cet autre".E sembrò che Jorge con quelle due parole avesse voluto schiarirsi la voce un istante prima di abbandonarsi ai fiotti di saliva con i quali Evelina gli stava inondando il mento e il labbro inferiore.
 
Dopo essersi fatto vicendevolmente l’amore, dopo aver unito quei due atti in un unico orgasmo, la ragazza si vestì per andare al bagno.
Non tornò a salutarlo. Quando decideva di andarsene era perché considerava il tempo scaduto.
Evelina non provava alcun rimorso, nessuna emozione negativa riguardo al fatto di non essergli fedele.
Pensava di non esserlo mai stata. Mai, che ricordasse.
Fin dall’adolescenza a Sanagasta, dove era nata e vissuta fino a quando s’era sposata. Da dove, appena compiuta la maggiore età, era partita direttamente per l’Europa con il marito coetaneo per evitare la tediosa riprovazione delle loro famiglie.
“A questa cosa io non ci rinuncio. Poi si vede”
Non riusciva assolutamente a comprendere perché i maschi, che dimostravano coi fatti di pensarla come lei, almeno tutti quelli che aveva conosciuto, rinunciassero a godere della devozione di cui era capace per un’ora o per una notte intera, per una sciocca presunzione di totale appartenenza della sua mente e del suo corpo definitivamente a loro.
“Devono essersi rincitrulliti tutti quanti, mi fanno l’assedio per portarmi a letto, per rivoltarmi sui sedili o sulle coperte come un pedalino, mi guardano come assatanati, s’accorgono che provo piacere al desiderio che gli suscito, di quanto è bello il gioco della seduzione e, quando l’hanno fatto se ne scappano fuori con queste sciocchezze. Non vogliono capire, oppure sono stupidi, oppure ancora non gli interesso abbastanza. Eppure sono sincera, lo sanno che sono sposata”
Intanto aveva disceso le scale, aperto il portone e saliva sulla bicicletta per recarsi al lavoro a Saillon, dove lavorava come inserviente al bagno turco delle terme.
Per la verità, una volta lasciato il marito a Siviglia ed ottenuto il permesso di lavorare prima in Francia poi in Svizzera, non aveva chiesto alcun divorzio per mancanza di fondi e la complessità delle procedure legali. Conviveva o meno, di volta in volta, nei vari luoghi in cui si spostava per lavoro, con gli uomini da cui più si sentiva attratta e che le davano il senso di maggior stabilità caratteriale ed economica.
Attualmente condivideva la sua vita con Francisco, un trentasettenne catalano dal quale, due anni prima, aveva voluto quella figlia.
Lo trovava ancora ottimo, come convivente, pur avendo faticato non poco a smussare quel suo carattere scontroso e taciturno.
Era quello l’amore, per Evelina. Quello, il rifugio di cui poteva disporre.

 

Una ventina di minuti più tardi si alzò pure Jorge. Lavorava più vicino quindi se lo poteva permettere. 
Il suo lavoro consisteva principalmente nel tirar su muretti divisori o rinforzare terrapieni nei vigneti di cui i dintorni di Sion ed i pendii brulicavano.  A volte interveniva anche sulle cantine, rifacendo muri pericolanti o sgretolati dal tempo.
Il lavoro manuale e faticoso aveva l’effetto di calmarlo, togliergli di dosso, come il sudore, le tossine che altrimenti gli avrebbero attraversato continuamente il corpo.
L’insoddisfazione gli era ongenita, e dipendeva dal suo modo di vedere il mondo.
Non aveva sopportato l’autorità paterna, gli era intollerabile l’autorità in genere.
Odiava visceralmente i soprusi, le iposcrisie, l'appropriarsi del potere, le oligarchie, le dittature ovunque allignassero. Per ribellione al padre, imprenditore edile, che lo avrebbe voluto con sé, dopo le scuole superiori si era trasferito a Montevideo a studiare filosofia. Era stato un leader di quel movimento studentesco marxista che avrebbe visto bene una rivoluzione comunista nel Paese, ma che fu, prima ancora di prender corpo interamente, per le confessioni estorte ad alcuni studenti, smantellato nel silenzio totale dal regime. Perse in tal modo, anche scoprendo la vigliaccheria e la paura, la fiducia nelle persone, e il dubbio, che fino ad allora era stato per lui, sull’onda dello studio dei filosofi dell’antichità, di Giordano Bruno, Galileo, Lutero, Newton, Montesquieau, Diderot, di Kant, il motore del lento progresso dell’umanità, gli rivelò l’altra faccia di se stesso.
Scelse una tesi, che gli fu rifiutata per motivi di comodo dello stesso insegnante cui bisognava  urgentemente un altro lavoro, e così, sentendosi forzato, abbandonò Montevideo senza nemmeno laurearsi.
Vagò per l’Argentina, la Bolivia, il Perù,  facendo di volta in volta l’imbianchino, il muratore, il barista nei locali notturni, il guerrigliero, il collegamento. Finì a Cuba dove conobbe il Lider Maximo, ed anch'egli gli stette sulle palle.
Passò l’oceano ed approdò a Genova. Di lì a Roma, dove stette un anno, poi in Piemonte, In provincia di Cuneo lavorò nelle proprietà dei vignaioli, prima come raccoglitore, poi nei campi e nelle cantine, e lì imparò il mestiere che svolgeva adesso.
Non sul viso, che aveva pulito, ma dentro, Jorge si portava insieme la cicatrice, il marchio di Caino ed Abele.
Aveva ucciso sé, e gli altri; che se fosse stato capace di dare loro il senso delle gabbie in cui venivano fatti nascere ed allevati come polli e, fuori uno sotto un altro, usati togliendo loro identità e intelligenza in cambio delle briciole di pane che venivano loro fatte beccare, allora si, non si sarebbe sentito un fallito
 
Tanto si sarebbe speso per dare coscienza alle debolezza altrui, tanto apprezzava ed amava l’ultrasensibilità del mondo femminile. Poiché lo considerava attivo, lo feriva ancor più, in questo, il paradosso dell’umanità: la resistenza specificamente greve a lasciare il certo per l’incerto in nome di un sogno, un ideale, un cambiamento radicale. Quel loro attaccarsi alle cose, alla sostanza  come  ad uno spezzone di roccia sull’orlo del burrone. La paura di sentirsi mancare il terreno sotto i piedi.
Quel loro attaccarsi a qualunque cosa, un matrimonio fallito, ad esempio, finché non avessero creato le condizioni per un’alternativa altrettanto consistente lo vedeva come un segno di vigliaccheria, un opportunismo bieco ed inaccettabile. Così come il potere seduttivo del sesso esplicito ed implicito che esercitavano a man bassa per crearsi individualmente delle opportunità, umiliandosi e credendo invece di innalzarsi.
Per che cosa? Ma certo: per il dominio, questa bestia feroce che erodeva la loro carne e quella dei loro figli
Lo stesso, grave difetto, nella sua esperienza di vita  lo aveva visto negli uomini, ma tranne alcuni grandi pensatori, tranne alcuni eroi, l’universo maschile gli appariva inferiore, più meschino, di genere passivo.
Solo una cosa lo teneva in piedi, a suo giudizio: la capacità di generare, a volte ed in alcune sue rarità, l'ingegno insieme a coraggio.
Dal rivoluzionario di un tempo l'uomo si era a poco a poco, veduti i danni provocati dalle rivoluzioni, assistito all’evidenza del genere umano rimasto immutato nelle sue connotazioni, trasformato così in un flàneur.
Era diventato un analizzatore, un visitatore attento di vetrine metropolitane e bassifondi, di caratteri e, seguendo quell'istinto che lo aveva accompagnato fin dall'adolescenza, nella specie, di donne.
“Flàneur: già, hai perso i sogni amico mio L’unica forza che ti è rimasta è quella dei lombi; forza di reni e resistenza nella lingua per i loro clitoridi.”
Si, Jorge si sentiva un fallito.
"Beh, almeno- si disse chino sulla turca- non ti sei mai sposato, non ne hai mai deluso una."

Dell'italianità gli era rimasto il senso dell'igiene inculcatogli dalla madre. Si pulì con i ritagli di giornale e, contrariamente a quei piccoli borghesi tedeschi e francesi che lo comandavano, poggiò le natiche sull'orlo del lavandino. Aprì il rubinetto, ed aspettò pazientemente che l'acqua gorgogliasse insieme ad alcune schegge di ghiaccio.
 

La mattinata la passò interamente a rinforzare il terrapieno sul quale strapiombava il vigneto più importante di Herr Jacob portandovi, a spalla che altro mezzo per lo scosceso non si sarebbe potuto utilizzare, i massi ed i pali occorrenti spaccati ed accatastati i giorni prima.

La prima campanella del pranzo si fece sentire dal fondo della valle alle dodici meno tredici minuti spaccate. Il tempo precalcolato per raggiungere molto velocemente a piedi la casa dei proprietari dall'angolo più lontano dei confini del vigneto. La seconda, per i lavoranti più nei pressi, risuonò alle dodici meno otto.

La terza alle undici e cinquantacinque.

Il tempo per lavarsi le mani nella vasca della corte e cambiarsi le scarpe prima di entrare nello stanzone con i tavoli e le sedie. Farsi, chi voleva, il segno della croce.

 

Nella sala imperava un forte odore di cavoli acidi e patate, il loro mangiare. Poiché era giovedì, come veniva fatto oltre anche il lunedì, erano state aggiunte nei vassoi spezzature di maiale bollite a parte e qualche salsiccia.
“Non mangio così nemmeno a casa.” Esclamò Francisco, il marito di Evelina, che sedeva abitualmente di fronte a Jorge, sollevando il riso degli operai vicini. Era un ragazzone dal fisico integro, compatto. La pelle pallida, la barba nera appena pronunciata. Non sorrideva spesso, ma quando lo faceva era amichevole.
“Chissà se lo sa che è cornuto” Pensò Jorge sorridendogli a sua volta.  Ma forse lo sa e gli sta bene così. Come è possibile altrimenti che lei dorma fuori.”
“Ehi Francisco, non ce n’è altre che ballino il tango come lei, come Evelina, una volta o l’altro le chiedo di insegnarmelo.” Interloquì Jacques, un manovale rosso di capelli e pieno di efelidi sul viso, l’unico di Sion tra loro, l’unico scapolo oltre a Jorge, che sedeva due posti più in là.
Un bracciante italiano seduto sulla stessa panca, più avanti rispetto ai tre, attizzato e basso di statura, sui cinquant’anni, alzò ridendo il viso dal piatto, “ Francisco ti spaccherà la faccia una volta o l’altra, che tu il tango non lo puoi imparare. Hai i piedi troppo grossi, Jacques, e sei lento.”
Tra quella doppia dozzina di persone sedute, divise in tre tavoli, erano presenti quattro mogli. Altre tre, due italiane e una spagnola che avevano seguito i mariti, lavoravano in cucina.
Una di quelle sedute dirimpetto all’italiano che aveva riso, disse, “ Anche Jorge balla bene il tango, io ci ho ballato e lo balla veramente bene.” Gli si rivolse direttamente, “Dove lo hai imparato, Jorge?”
“Da ragazzo Dolores”.
Jorge non amava parlare del suo passato.
L’unico a  conoscere la sua cittadinanza dal passaporto era  stato Herr Jacob. Oltre allo spagnolo, inoltre, egli parlava correntemente tedesco, francese e italiano ed era quindi facile confondersi sulla sua provenienza.
 
II CAPITOLO
 
< Matala>. Jorge sentì l’ordine risuonargli nel timpano prima di sprofondare nel cervello.
Una seconda volta a percuoterglielo, quasi vi fosse la volontà da parte del ragazzo di fronte a lui di voler trapassare le sue pareti troppo dure, <ma ta la>.
Una giornata e mezzo di viaggio a piedi, quasi due giorni di cammino spezzando con i machete tutto ciò che fosse di ostacolo alle loro gambe, al pantalone mimetico, alle magliette di ombre verdi , ai sandali per le zecche.
Cinque ore di attesa, appostati a semicerchio l’uno distante dall’altro una quarantina di metri, nascosti nei cespugli; il comandante del gruppuscolo, il ragazzo, l’unico ad averci un vecchio binocolo militare.
Sotto, nel fazzoletto di terra strappato alla foresta, abbracciate come sorelle, a cinquecento metri, le tre capanne con i tetti di foglie di banano  
Uscivano e rientravano, uscivano e rientravano, nessuno che sedesse sulla porta.
Un intero pomeriggio.
Il secco crepitio della scarica, la bambina che si piegava lenta all'indietro, il fumo dalla canna della Mauser.
 
Dopo aver sparato alla piccola, guardai negli occhi di José Ysmael, il nostro capo. Erano pieni d’odio come i miei.
<Mi ucciderà>, pensai, < lo farei anch’io se fossi nei suoi panni>.
Non lì, non subito, ma nell’accampamento, alla presenza di tutti. Prima avrebbe pronunciato la sua sommaria accusa e, mentre rimanevo con lo sguardo fisso a terra, senza difendermi, mi avrebbe sparato al ventre. Perché dovevo morire come muore un disertore:lentamente.
Ysmael indicò con la mano il versante oltre le tre capanne. Dovevamo risalire la montagna da quella parte, ci avremmo messo il doppio di tempo dell’andata, ma avremmo confuso le tracce ad eventuali inseguitori, per quel che poteva servire
Le informazioni raccolte dall’osservatore erano esatte. Si trattava di due famiglie di raccoglitori di coca. A noi non la consegnavano, quindi la raccoglievano per i guerriglieri della destra.
La terza capanna serviva da deposito.
Ognuno di noi, anche Asuncion, l’equadoregna, si caricò sulle spalle, dopo aver cancellato gli spruzzi del sangue, chi un corpo dei quattro adulti, chi due dei ragazzi, e così cominciammo la risalita. Li avremmo lasciati cadere una volta raggiunto il crinale.
Arrivammo in cima che il sole era già alto abbandonando i corpi agli animali e alle formiche e, finalmente, potemmo camminare in piano, o quasi..
Era da poco passato il mezzogiorno che qualcuno sparò. Un colpo secco, una Berretta, uno solo.
Un hucucha, un grosso topo che mangiammo dopo averlo cotto in una buca del terreno con una grande lastra sopra perché il fumo non salisse oltre gli alberi.
Quindi ci prendemmo due ore di riposo e Asuncion andò prima da Ysmael che la voleva, poi a stendersi sotto la coperta del “Viejo” che le avrebbe dato alcune foglie di coca, ed essendo di quelle montagne, era il più resistente alla fatica del gruppo.
Il "Viejo". Fu lui a non farmi togliere la vita. L'unico a compatire la mia esitazione.
Quando arrivammo alle capanne, chiamò i suoi tre figli.< Mi sarebbe passata per la testa la stessa cosa>, disse loro. > Se fossimo stati José t'avremmo ucciso come farà lui con Jorge>, rispose per tutti il più grande.
<La bambina aveva si e no due anni>, reclamò il padre. <Cosa poteva saperne di questa guerra? Che colpa poteva avere?>
< È nata dalla parte sbagliata>, disse quello di mezzo.
Così i figli lasciarono il vecchio a pensarci.
La sera ci raccogliemmo intorno a un fuoco. Juanita e Conception avevano messo a bollire le pannocchie di mais.
Ysmael si rivolse al ragazzo di fianco. <Racconta tu Oswaldo come è andata, dillo tu come sta>.
<Jorge sta per lasciarci>, sghignazzò Oswaldo. <A Jorge son cadute le palle, non gli riesce più di alzarla, la canna>.  Risi anch'io.
Sperai che Ysmael sparasse mentre stavo infilando il braccio nell'acqua, ma non lo fece. Non sparò subito, così cominciai a sgranocchiare e ingoiare il mais dolce, ancora in piedi.
< Lo ha preso la pietà>, rincarò il ragazzo che mi stava accusando. <Io t'ammazzo, porco, non voglio morire prima del tempo per un vigliacco. Tu sai che la bambina poteva parlare, possono parlare con gli occhi quelle puttane>.
<Ci avrei pensato anch'io un momento>, disse a quel punto il vecchio alzando la testa.
Come faceva a non mangiare mai Sebastian?
<Bada vecchio>, lo ammonii Asuncion che sedeva accanto a lui, spostandosi istintivamente di qualche decimetro.
A quel punto Ysmael alzò la mitraglietta e me la puntò al basso ventre. <Fottiti gringo pezzo di merda>.
L'intestino bruciava come ci avessi avuto il fuoco di passaggio. Oswaldo mi era venuto a calpestare la pancia e i testicoli con il calcagno sinistro, e rideva
 
 <Tutto è mito>, lessi riaprendo gli occhi la prima volta. Le parole campeggiavano nitide nella polvere alla base della parete più lontana dal mio stuoino. Scritte intingendo le dita nel mondo arcaico del mio corpo. Il dolore si era espanso dal basso ventre fin su alle spalle neutralizzando in tal modo il vigore del ferro, del fuoco. Provai ad alzarmi, ma non ci riuscii. Opposi resistenza al dolore che si era riacutizzato e cercai di sollevare almeno la testa: ero integro, dagli occhi ai piedi alle mani. Fasciato dal torace fino alla parte più alta delle cosce da foglie appiccicose di una pianta che non conoscevo.
 
Ed il cielo aprirsi, ecco
la porta rugosa
senza nubi
senza denti,
la luce
 
Le spalle quadrate parlarmi di miracoli
pure ferite,
piante
d'acqua fosforescente
ecco, le minute di Cochabamba
 
Se ero ancora in vita lo dovevo, senza dubbio, alla piccolissima donna che stava avanzando decisa verso me.
Segni indecifrabili i colori brillanti intrecciati sul poncho e sul copricapo.
Il viso era il tempo, il suo passaggio; quel tempo indefinito che non lascia confini tra la vita e la morte. Che non da modo di vedere altro che l'adesso.
Ella si inginocchiò nella polvere, scostò le foglie e scrutò con estrema attenzione la ferita.
Senza pronunciare una parola, senza gesti superflui, senza mai guardarmi in viso.
Quindi richiuse le foglie su di me come richiudesse il mio sepolcro e se ne andò veloce come era venuta, le spalle dritte, tese verso le pareti, il movimento solo delle gambe.
La porta fece ritornare l'ombra, e con quella il sonno.
 
Quelle notti tra la morte e la vita: quelle, in cui “la menina” introdusse le dita nelle mie viscere, mi insinuarono dentro, irrimediabile, la grazia del gioco.
Fino ad allora credute leggenda: “Las Meninas” e la grazia. 
La mente, e con essa la facoltà di elaborare strategie, andava e veniva.
Al termine dei circa quaranta giorni trascorsi nella capanna di Sebastian ebbi l’impressione di aver trovato, finalmente, il rimedio al male del mondo.
<Su cosa si sorreggeva il potere? Quali erano, le sue colonne?>
Non eravamo ancora, giunti all’era della comunicazione anche se, ci stavamo entrando.
 
 

 

 
 
 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 1 utente e 5244 visitatori collegati.

Utenti on-line

  • Laura Lapietra