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Piccola storia praghese

 

 

 

Camminavo sul Ponte Carlo, mi ero voltato a guardare la Moldava appoggiandomi al parapetto in pietra, evitando la folla raggruppata attorno al gruppo statuario di San Giovanni Nepomuceno. Avevo percorso con lo sguardo l’insieme di persone accalcate tra le varie bancarelle che approffittando di un attimo di pausa della pioggia, si erano riversate sul ponte.

Avevo ripercorso l’intero ponte, camminando lentamente, cercando di proteggermi dalle improvvise folate di vento, che si erano di colpo levate spazzando via la pioggia. Il clima autunnale di Praga iniziava a farsi sentire.

Stava già scivolando la sera e la città, all’imbrunire, cominciava a perdere i suoi contorni e a punteggiarsi di luci, ed io vagavo senza alcuna meta, immerso nei miei pensieri. Ero ridisceso nella Città Vecchia, aggirandomi tra il labirinto di vie che avevo percorso al mattino, osservando curioso le vetrine.

Ero poi entrato nella piccola galleria d’arte, dove mi aveva colpito un dipinto dai caldi colori; ero completamente assorto da quelle pennellate e da quei vibrati segni, mentre al fondo della sala, la giovane proprietaria, seduta dietro una scrivania, osservava il riflesso del lucido pavimento in parquet con il pensiero rivolto a chissà dove. All'angolo della via, mi ero infilato nella piccola libreria, dove avevo vagato a lungo tra gli scaffali osservando quei testi scritti in una lingua a me sconosciuta, ma nonostante ciò, non avevo saputo resistere al sottile richiamo che quei libri mi inviavano, e ne avevo sfogliato alcuni a caso, accarezzando distrattamente le copertine, facendo frusciare le loro pagine.

Riandavo con il pensiero agli eventi trascorsi in quella giornata. Nel pomeriggio mi ero recato all’interno del vecchio cimitero ebraico e mentre stavo per scattare una fotografia, incuriosito dall'iscrizione di una vecchia lapide, sentii una voce alle mie spalle che in perfetto italiano disse:

- Guardi che qui non si può fotografare. - Voltandomi, avevo visto una ragazza dai capelli scuri, che osservandomi sorrideva.

- Veramente io... d'accordo; ci ho provato. - avevo ammesso, sia pur a malincuore.

- Davvero?, non me ne sono accorta! - aveva ribadito lei, con aria ironica, poi aveva aggiunto: - Mi chiamo Tereza, sono nata a Praga, abito qui, ma ho vissuto per molti anni in Italia. Le piace questo luogo?

- Sì, mi sembra paradossalmente vivo, si respira un’aria di storia, di passato.

- Lei ama il passato? - mi aveva chiesto, così, all’improvviso.

- A volte… - avevo risposto.

Nel mentre il mio pensiero si soffermava alle scritte viste sui muri all'interno della sinagoga Pinkas dove, da quell’elenco di nomi delle vittime dell’olocausto, avevo letto con un’angoscia sempre più crescente, tre nomi presi a caso calcolando mentalmente la loro età nel momento in cui erano state uccise.

Elsa, 42 anni; Gisela, 27, Judita di 6 anni. Poi non ero riuscito a proseguire oltre, colto da una profonda angoscia, ero uscito fuori all’aperto respirando a piene boccate l’aria resa umida dal tempo piovoso.

Mi ero voltato ma Tereza era scomparsa; cercavo di individuarla tra il gruppo di turisti che si stava sparpagliando sul piccolo vialetto che serpeggiava tra le lapidi, ma non ero riuscito a scorgerla.

Avevo allora proseguito verso la città alta, al fondo del Ponte Carlo, mi ero infilato in un piccolo caffè dal nome curioso: Ai tre struzzi, riparandomi così dall’improvvisa pioggia. Bevendo un caffè, avevo osservato la piccola fiamma della candela appoggiata sul bancone che ondeggiava guizzando come una cosa viva, mentre nella mia testa continuava l’ininterrotto brusio di quella babele di lingue straniere udite poco prima. Pensavo all'anziana guida, di lingua italiana, che avevo conosciuto il giorno prima, durante la visita ai castelli, alla sua vita trascorsa a cavallo di due regimi: quello nazista prima e all'occupazione sovietica dopo.

Poi si era affacciata alla mia mente l'immagine dei due ragazzi, che mi avevano trasportato in taxi dall'areoporto in albergo; al fatto che parlandogli di Milan Kundera uno dei due avesse chiesto all'altro con curiosità chi era questa persona. Riflettevo sul lento oblio della storia, polvere che si accumulava su altra polvere. Poi il calco in bronzo del viso di Jan Palach, visto su un muro quel mattino, era affiorato all'improvviso nella mia mente, ribaltando la prospettiva e spazzando via tutto quel cumulo di polvere.

Avevo quindi ripreso a ripercorrere il ponte in direzione della Torre delle Polveri in cerca di un posto dove cenare.

Mi ero infilato in un piccolo locale che traspirava antichità da ogni suo angolo. Seduto in uno scuro stallo in legno avevo mangiato del goulash accompagnato da pesanti bocconi di gnocco bianco, illuminato dal riverbero di una candela che si rifletteva sulla coppia di turisti oxfordiani seduti nei posti liberi al mio fianco. Con loro, si era quindi parlato della magia della città, e dei passi occorsi per visitarla, coniugando così la curiosità con la stanchezza. Stranamente la coppia inglese si lamentava dell'inclemenza del tempo, che io presumevo più simile, come temperatura, al loro clima.

Dopo cena, avevo poi fatto pochi passi nelle vie del centro. Le strade erano ancora piene di turisti. L'aria era umida; camminavo sul selciato della piazza della Città Vecchia, l’orologio astronomico aveva scandito da poco le otto, e i miei passi mi avevano portato inconsciamente verso la chiesa di San Nicola, dove si svolgeva un concerto. Sentivo una melodia risuonare nell’aria; avevo perciò deciso di ascoltare un po’ di musica ed ero entrato nella vecchia chiesa.

Il terzo brano in programma era un concerto di Vivaldi, non ricordo di preciso quale, ma lo sguardo di Tereza che si fissava sui miei occhi, questo lo ricordo ancora con precisione. L’avevo scorta al fondo della chiesa, mentre, distratto, osservavo il grande lampadario che si apriva, scintillante di una pioggia di riflessi, come un grande ombrello schiuso sopra le nostre teste.

Il suo sguardo era sorridente e lievemente ironico, con un impercettibile cenno del capo, salutandomi, capii che mi aveva scorto e riconosciuto. Il concerto proseguì, tra noi due, in un crescendo di sguardi, quasi si svolgesse una sottile comunicazione fatta da un flusso telepatico, dove qualcosa di molto profondo, unendoci, sovrastava e ci superava, avvolgendoci, come un'enorme onda.

Sì, mi sentivo finalmente a casa mia, mi sembrava di avere raggiunto una quiete interiore simile a un lento abbandono nelle braccia di una madre. Avevo toccato la sponda serena di un'oasi di pace. Fu durante un crescendo di violini che lei, scivolando tra la gente, uscì dalla chiesa.

La seguii immediatamente, trasportato dalla certezza interiore che quello era un appuntamento con il mio destino. In strada, vidi la sua figura immobile, nascosta dall'ombra di un androne, poi, come mi vide, scivolò via nella notte.

Riprese a camminare attraversando stretti vicoli, interni di cortili che sbucavano su altre vie attraversando labirintici isolati. Seguivo il suo cammino cercando di non perderla, mentre lei avanzava leggera modulando i suoi passi, rallentando per permettermi di scorgerla. Mentre camminavo notavo che le case, immobili nelle strette vie, proiettavano delle strane ombre sul selciato e i pochi lampioni, presenti nella via, rischiaravano a fatica il mio cammino. Pozze di luce giallastra riflettevano sul selciato reso lucido dalla pioggia pomeridiana.

Ero sceso in uno stretto vicolo, un labirinto di curve e incroci. Sentivo giungere i rumori dalle abitazioni, avvertivo, dalle ombre furtive alle finestre, la presenza di persone sconosciute perse in attività notturne. L'ombra di Tereza che svoltava in un angolo e i suoi passi che risuonavano sul selciato, catturavano la mia attenzione. Vedevo la sua figura che apriva il cancello metallico ed entrava nel piccolo cimitero ebraico.

Seguendola, la osservavo attraversare le file delle tombe con passo leggero, scivolava in quegli spazi angusti ondeggiando tra quelle lame di pietra che al riflesso lunare sembravano numerosi allineamenti megalitici. Il vento scuoteva i rami degli alberi; trascinato da una ipnotica corrente sotterranea, simile ad un antico e arcano richiamo, seguendo i suoi passi mi ero ritrovato alle sue spalle. Lei si era voltata osservandomi fisso negli occhi.

Il suo sguardo risuonava come una dolce melodia, scuoteva la mia anima facendola precipitare in oscuri abissi. Avvertivo, nel contempo, oscure presenze attorno a me. Ora Tereza mi tendeva la mano sorridendo con uno sguardo fiducioso. Sfioravo le sue dita algide, mentre coglievo sul suo viso il riflesso pallido delle gote.

Con un cenno mi invitò a seguirla, mentre con orrore guardavo i suoi piedi nudi dissolversi, in una lattiginosa nebbia, sull'erba del suolo tombale. Atterrito, avevo ritirato la mia mano, e correndo verso l'uscita (sentendo il suo sguardo fisso posarsi sulla mia nuca), guadagnavo il cancello e la strada ... .

Uno scroscio improvviso di applausi mi riscosse dal sonno in cui ero piombato, la stanchezza e l'atmosfera inquietante della città, mi avevano provocato quella strana visione onirica, dai tratti così precisi, da sembrarmi reale. Sudato, guardavo i musicisti, che battendo l'archetto sullo strumento, ringraziavano a loro volta il pubblico. Gli applausi rimbombavano amplificati dalla volta a cupula della chiesa.

D'istinto, mi ero voltato a guardare Tereza che era là in piedi, intenta anch'essa ad applaudire. Dunque si era trattato solamente di un brutto sogno, mi ero assopito prostrato dalla stanchezza lasciandomi cullare dalla musica, e avevo avuto quel brutto incubo. Mentre formulavo nella mia mente questo breve pensiero, il mio sguardo era ritornato verso Tereza; lei, dopo avermi lanciato un lungo e profondo sguardo, scivolando tra la gente uscì dalla chiesa.

 

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