Scritto da © Pest Writer - Lun, 04/05/2015 - 05:20
Stavolta, niente politica. Mi prendo una pausa di riflessione...
... No, non è vero. Niente pausa. Bensì, qualcosa che volevo fare da molto tempo, e per cui non avevo ancora trovato il coraggio.
Ho (auto)pubblicato un romanzo (beh, a dire il vero, più di uno), di fantascienza, e vorrei qui proporne qualcosa. Con la speranza di invogliare qualcuno a comprarlo, magari. Beh, era scontato. Solo, non so come verrebbe presa la cosa.
Certo, fossi Camilleri, e decidessi di presentare qui un paio di capitoli del mio nuovo libro, probabilmente non si arrabbierebbe nessuno. Anzi! Ma io non sono Camilleri. Sono molto lontano da Camilleri. Non fumo nemmeno. Così...
... così, intanto, metto il prologo. Siamo in un sito letterario, e questo scritto è di tipo letterario... anche se un po'... "infetto".
Se non s'arrabbia nessuno, pubblicherò anche il primo capitolo. Magari, anche il secondo. E dirò qualcosa in più sul libro: titolo definitivo, dov'è in vendita, dove trovare qualche informazione in più.
In caso contrario... chiedo scusa per aver osato.
... No, non è vero. Niente pausa. Bensì, qualcosa che volevo fare da molto tempo, e per cui non avevo ancora trovato il coraggio.
Ho (auto)pubblicato un romanzo (beh, a dire il vero, più di uno), di fantascienza, e vorrei qui proporne qualcosa. Con la speranza di invogliare qualcuno a comprarlo, magari. Beh, era scontato. Solo, non so come verrebbe presa la cosa.
Certo, fossi Camilleri, e decidessi di presentare qui un paio di capitoli del mio nuovo libro, probabilmente non si arrabbierebbe nessuno. Anzi! Ma io non sono Camilleri. Sono molto lontano da Camilleri. Non fumo nemmeno. Così...
... così, intanto, metto il prologo. Siamo in un sito letterario, e questo scritto è di tipo letterario... anche se un po'... "infetto".
Se non s'arrabbia nessuno, pubblicherò anche il primo capitolo. Magari, anche il secondo. E dirò qualcosa in più sul libro: titolo definitivo, dov'è in vendita, dove trovare qualche informazione in più.
In caso contrario... chiedo scusa per aver osato.
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prologo.
L’agente di guardia era seduto dietro una vecchia scrivania, subito oltre la porta, in un angolo dell’atrio. Un omaccione avanti con gli anni, stempiato, ed un’espressione stufata sul volto che sembrava più somatica che legata ad una particolare contingenza. Sedia in bilico, gambe anteriori sollevate e spalliera contro il muro, era intento a sfogliare una rivista che di certo non aveva comprato.
Non prese il mio arrivo come un piacevole diversivo, contrariamente a quello che mi sarei aspettato. Anzi, parve seccato. Per qualcuno, a questo mondo, la noia è uno stato mentale appagante.
– Sì? – fu il cortese monosillabo di cui ritenne opportuno gratificarmi. Beh, sempre meglio che essere mandato in malo modo a quel paese per aver attentato alla sua quiete istituzionale.
Apprezzai lo sforzo compiuto.
Prima di rispondere mi avvicinai, per studiarne bene la faccia.
Niente più di un rassicurante senso di fastidio per la mia irruzione.
Bene.
Comunque, non ero disposto a fidarmi più di tanto.
– Chi comanda, qui? – chiesi, senza preamboli.
– Giorgio Napolitano, al momento – rispose con fare paterno, indicando con un cenno della testa la foto del nostro presidente appesa su una parete. Per pura cortesia contemplai un istante il ritratto, poi tornai a fissare il tizio. Nessuna espressione d’orgoglio per la simpatica battuta. Probabilmente, non ne ero stato il primo beneficiario. Doveva avere all’incirca il doppio dei miei trent’anni, e meno della metà dei guai che avevo io.
– È qui, adesso? – domandai, stando al gioco.
– Lo aveva informato della sua visita? – chiese quello di rimando. Per tutta risposta, lo guardai come un ebete, senza una parola. Il tizio interpretò la cosa come un “no” e strinse le spalle, come per dire “e allora di che ti lamenti se non si è fatto trovare?”.
– Qualcuno che ne fa le veci, in questa stazione?
– Se per lei va bene, c’è il maresciallo Barile.
– Mah, se il presidente lo ha designato come suo sostituto, sarà di certo all’altezza dell’incarico – commentai, fingendo di ignorare che in Italia, di norma, non funziona esattamente così.
Mi squadrò per la prima volta da capo a piedi, e fermò lo sguardo sull’oggetto che avevo in mano. Sembrava che lo scambio di battute lo avesse svegliato dal suo torpore.
– O.K. Carta di identità e motivo della visita.
Posai il documento richiesto sulla scrivania, in silenzio.
– Nome?
– Aldo De Buono.
– Professione?
– Impiegato.
– Da dove viene?
– È scritto tutto lì. Può controllare.
Decisamente, gli avvenimenti non stavano prendendo una buona piega.
– Va bene – si spazientì. – Cosa deve riferire al maresciallo?
– Esatto.
– Esatto… cosa?
– Esatto… quello che ha detto: riferire al maresciallo. A lui, in persona.
Lasciò cadere la rivista sul tavolo e riportò la sedia in una posizione più stabile. Con calma, ma alquanto irritato, pronto a levarsi di scatto e minacciare tuoni e fulmini per il mio atteggiamento ingiurioso. Lanciai un’occhiata al giornale che aveva messo giù, e vidi che si trattava di un noto mensile d’informatica. Poi tornai a guardarlo in faccia.
Assurdo.
Era chiaro che la mia prima impressione era stata corretta: non l’aveva comprato lui.
Il tipo sembrò leggermi nel pensiero, e l’imbarazzo che provò lo riportò a più miti pensieri. In fondo, la noia in cui si stava crogiolando, fino al mio arrivo, costava molto meno fatica che indignarsi per la mia mancanza di rispetto. E poi, poteva riconquistare facilmente quelle condizioni di estasiata serenità, non aveva che da accompagnarmi dal capo e tornare al suo posto a scavarsi il naso.
Con un leggero sbuffo, si alzò per farmi da guida, e di nuovo i suoi occhi si posarono sull’affare che avevo con me.
– Cos’è quello?
– Questo? – chiesi per conferma, sollevandolo. – Un fucile ad acqua. Un giocattolo. È di mio nipote. Sembra vero, eh?
Non ero serio nel suggerire che un arnese di plastica colorata in rosso, giallo e blu sgargianti, e dalle forme improbabili, potesse realmente somigliare ad un fucile vero, ma il mio interlocutore annuì, meditabondo, il che mi offriva tre possibili interpretazioni: o che le mie conoscenze in fatto di armi da fuoco erano molto limitate, o che lo erano le sue, o, infine, che si era proprio rotto gli zebedei di me e delle mie battute, e voleva chiudere una volta per tutte quella penosa discussione. – Lo lasci qui.
– Niente da fare. Devo parlare con il maresciallo proprio di questo.
Gli diede un’altra occhiata, scosse il capo, e s’incamminò davanti a me senza obiettare altro. Questo indicava che, con ogni probabilità, le mie e le sue conoscenze in fatto di armi erano paragonabili, e che la sua necessità più impellente riguardava i due gemellini che teneva costretti nei pantaloni.
L’ufficio del maresciallo era alla fine di un lungo e semibuio corridoio con le pareti scrostate in più punti, ed un consunto parquet di legno bisognoso di una buona passata di bitume come la strada davanti casa mia. Il carabiniere bussò discretamente con le nocche, attese una risposta che udì solo lui, poi aprì la porta e si affacciò all’interno ad annunciarmi. – Maresciallo, c’è un tizio che chiede di parlare con lei.
L’interpellato dovette rispondere con un cenno della testa, perché neppure stavolta udii niente, ma il mio accompagnatore si fece da parte per farmi passare. Lo individuai, guardando nella direzione verso cui aveva parlato la mia cordiale ed affabile guida, seduto dietro una massiccia scrivania scura, mentre un altro uomo in divisa rovistava in uno schedario dislocato contro la parete opposta.
Entrai offrendo al militare che mi aveva condotto fin lì un sorriso riconoscente che voleva essere di commiato, ma il trattamento che avevo riservato ai suoi attributi doveva essere stato così doloroso da spingerlo, anziché tornare ansiosamente al proprio ozio trasognato, ad entrare anche lui, pur di farmi dispetto, a seguire personalmente il caso.
Pessima mossa, per entrambi. Per me, perché ne avrei avuto uno in più da tenere a bada. Per lui, perché avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento che stavo riservando agli altri due.
Sperai che ci pensasse il capo a rimandarlo al suo posto, visto che ciò non era in mio potere, ma quello era tutto preso nella contemplazione della formidabile arma che portavo con me, e non badò neppure all’indebita intrusione del suo sottoposto.
Rassegnato, mi diressi verso il graduato, mentre l’aiutante distoglieva la sua attenzione dallo schedario che stava consultando per dedicarla a me dapprima, poi al fucile ad acqua che stringevo nel pugno. Qualche goccia cadde sul pavimento, indicando che era carico.
– Dica – esordì il maresciallo Barile, senza distogliere lo sguardo dalla mia arma giocattolo. Da quelle parti, i convenevoli non dovevano essere molto di moda.
Mi adeguai.
Tralasciai saluti di rito e dichiarazioni preliminari, impugnai con entrambe le mani il fucile ad acqua, lo sollevai, e stantuffai un paio di volte.
– Cosa conta di… fare? – mi chiese il funzionario. A giudicare dal lieve tremore nella sua voce, sembrava preoccupato.
Quindi aveva capito alla perfezione quali erano i miei propositi.
Misi l’arma in posizione di tiro, mirai su di lui e feci fuoco… voglio dire, acqua. Lo spruzzo lo centrò in pieno volto, e lo stupore gli impedì perfino di ripararsi o cercare di sfuggire al getto che lo stava raggiungendo.
Come spettacolo fu divertente, ma non ero lì per sollazzarmi, e ne avevo altri due da sistemare prima che si riavessero dalla sorpresa. Così spostai la canna puntandola contro l’attendente e innaffiai anche in quella direzione. Stavolta la mira fu meno precisa, ma altrettanto efficace, ed una grossa macchia scura comparve sulla camicia del militare. Sapevo per esperienza che il tessuto non offriva una valida protezione contro ciò che gli avevo sparato addosso, per cui considerai… liquidata anche quella pratica.
Restava il terzo, il mio stagionato accompagnatore dagli attributi disastrati.
Feci per girarmi ed offrire anche a lui la sua dose, ma il tipo, vinto l’iniziale stupore, mi abbracciò prima che riuscissi a puntargli l’arma contro. Poco male: stantuffai un altro paio di volte, mirai verso l’alto, e sparai ancora. Parte dell’acqua si fermò al soffitto, il resto piovve giù sulle nostre teste, la mia e quella del tizio che mi tratteneva. Allora smisi di opporre resistenza, ed attesi gli sviluppi.
L’agente mi disarmò e mi lasciò andare, asciugandosi la fronte. – Pazzo figlio di puttana! – mi inveì contro.
Bene, niente di quello che temevo.
Poi, vedendo che anche gli altri due erano incavolati e basta, mi rilassai, e mi rivolsi finalmente al maresciallo. – Immagino si starà chiedendo il perché di questo scherzo – esordii.
Sbagliavo.
Il sottufficiale si girò prima verso il suo aiutante, e, indicandomi, commentò acido: – Ecco uno che sa usare gli eufemismi.
Poi si voltò di nuovo verso di me e sbraitò, in rapido crescendo: – NO, NON MI STO CHIEDENDO IL PERCHÉ DI QUESTO SCHERZO! NON ME NE FREGA UN CAZZO DEL PERCHÉ DI QUESTO SCHERZO. L’UNICA COSA CHE MI INTERESSA È SBATTERTI DENTRO A CALCI IN CULO, E FARTI MARCIRE IN UNA CELLA FINCHÉ NON TI SARÀ PASSATA LA VOGLIA DI ROMPERE I COGLIONI ALLA GENTE CHE LAVORA!
Come finezza lasciava parecchio a desiderare, ma dovetti ammettere che il suo lessico era concettualmente chiaro e rigoroso.
L’agente che mi aveva condotto fin lì mi agguantò per un braccio, confidando che il suo superiore lasciasse a lui il piacere. Io mi divincolai e mi lanciai contro la scrivania.
– No, aspetti un attimo, posso spiegare tutto… Non era uno scherzo, si tratta di una cosa maledettamente seria!
– SPIEGARE? COME PENSA DI SPIEGARE QUELLO CHE HA FATTO? – continuò a sbraitare quello. Cavolo, l’aveva presa proprio male! Che esagerato, però, per un paio di gocce d’acqua…
L’agente alle mie spalle mi acchiappò di nuovo e mi tirò indietro. Con una presa più salda della precedente. L’amico non aveva nessuna intenzione di farmi sgusciare via un’altra volta.
– No, dannazione, dovete ascoltarmi – li implorai. – La Terra è in pericolo!
– Cazzo! – esclamò il maresciallo Barile, conciso ma espressivo come al solito.
– È così, dovete credermi. Non sono pazzo.
– Pazzo forse no – interloquì il poliziotto che mi aveva preso da dietro, tirandomi via con forza dalla scrivania – ma deficiente sì di sicuro.
– Scommettiamo che adesso tira fuori gli extraterrestri? – ridacchiò il terzo militare, tutto sommato divertito. Se anche gli altri due avessero avuto lo stesso senso dello humour, quel colloquio si sarebbe svolto in maniera assai più pacata. E meno faticosa, visto che per rimanere in quella stanza dovevo resistere con tutte le forze agli strattoni del mio aggressore.
– Esatto – confermai – è proprio così! Siamo sotto attacco! Gli alieni vogliono impadronirsi della Terra.
– E hanno cominciato atterrando nel tuo giardino, giusto?
– No, non nel mio giardino… io non ne ho, giardino. Sono atterrati vicino alla vecchia casa Vitali.
– Casa Vitali? Dove si trova?
– È a qualche chilometro fuori paese… ehm, fuori del “mio” paese.
– E sarebbe? – domandò l’agente che mi teneva stretto. Cavolo, che l’aveva chiesta a fare, poco prima, la mia carta di identità?
Pronunciai un nome, che, ovviamente, non disse niente a nessuno di loro. Sfido, non conoscerei quel buco nemmeno io, se non vi fossi andato ad abitare da qualche anno. È solo una frazione, e di un comune così piccolo che nessuno si sogna di segnarlo sulle carte geografiche. Spesso sfugge persino a quelle stradali, nonostante la grande scala usata in quel caso. Finora, l’unica volta che l’ho visto indicato da qualche parte è stato su Google, ma lì, se non stai attento, mettono in mappa pure quello che ti ritrovi in tasca.
– E dov’è? – chiese l’attendente. – Ne conosco uno in Toscana, mi pare vicino…
– Calabria!
– Calabria?
– Calabria – confermai. – Ed io sto venendo da lì.
– Calabria… saranno almeno seicento chilometri.
– Seicentosettanta – puntualizzai. Fatti in un’unica tirata, a parte una sosta in Campania per un pieno, e tutti ben stipati nella mia schiena. – Non so fin dove sono arrivati… forse non sono nemmeno usciti dal mio paese, per ora, ma non potevo rischiare rivolgendomi ad una stazione di polizia troppo vicina. E anche qui non potevo essere sicuro… di chi mi trovavo davanti.
– Così hai pensato bene di spararci prima con il tuo fucile laser, giusto? – intervenne ancora l’attendente, insistendo a buttarla giù sullo scherzo. Il suo senso dello humour cominciava a stancare.
– Non è un laser, è un fucile ad acqua – lo corressi, infastidito.
– Mah, se non altro non è tutto fuori di testa – commentò il militare che mi teneva fermo, senza però cercare di trascinarmi via. Sembrava che la vicenda lo stesse appassionando. E, obiettivamente, doveva riconoscere che era più intrigante dell’astrusa rivista di informatica che stava sfogliando al mio arrivo.
– Ascoltatemi – continuai, con un tono più pacato, visto che lo scontro in atto pareva avere un momento di tregua – mi rendo conto… quello che ho fatto può apparire assurdo, e anche quello che sto dicendo… ma non sono matto. E posso provarlo.
– Provarlo? E in che modo? – anche il maresciallo sembrava essersi calmato. Bagnata a parte, dopotutto, cosa c’è di meglio delle farneticazioni di un povero svitato per ravvivare un noioso pomeriggio di lavoro?
– Se io vi dicessi… di avere un poliziotto in tasca… un carabiniere, come voi… mi credereste?
– E da quando in qua li fanno così piccoli? – chiese l’attendente. Fra tutti, era quello che mostrava di spassarsela di più. Forse perché era quello che si era bagnato di meno.
– Taglia normale – precisai.
– Bene, mi pare che ci siamo divertiti abbastanza – giudicò il maresciallo. – Biagio…
Biagio doveva essere l’agente che mi aveva accompagnato fin lì. La sua stretta sul braccio si fece più forte, e riprese a tirare per portarmi via.
– Un momento, maledizione! Ho fatto solo una domanda. Maresciallo, mi crederebbe se le dicessi di avere un carabiniere nella tasca della giacca? – ripetei.
– Che razza di domanda!
– Okay, mi pare di capire che la risposta sia no. Bene, se adesso lo tiro fuori, mi promette di ascoltarmi?
Il sottufficiale scosse la testa con fastidio. Stava cominciando ad arrabbiarsi di nuovo.
– Quello scuotere la testa è un no, o significa solo che si è rotto?
– Ah, finalmente l’hai capita: mi sono rotto.
– Quindi – insistetti, infilando la mano nella tasca destra della giacca – se le mostro il poliziotto che ho con me mi ascolta!
Biagio ridacchiò, smettendo per un istante di strattonarmi. Ora voleva godersi la mia faccia, quando avessi dovuto arrendermi davanti all’evidenza che in saccoccia non potevo avere nessun poliziotto. O, ancora più probabile, le scene che avrei fatto per convincerli che il poliziotto era apparso davvero.
Tirai fuori la mano e mostrai cos’avevo preso: una scatola di fiammiferi.
– L’hai messo lì dentro? – chiese l’attendente.
Annuii con convinzione. – Per non farlo scappare. E per evitare di schiacciarlo inavvertitamente.
I tre scoppiarono a ridere. Bene, per due motivi: l’atmosfera era più distesa, ora, e questo non avrebbe potuto che giovare al prosieguo del nostro colloquio, primo motivo. Secondo…
Posai la scatola a terra, l’aprii, ed un uomo in divisa comparve dal nulla davanti a me, muovendo le gambe come se stesse correndo, ma senza riuscire a spostarsi di un centimetro. Un tipo giovane, grassottello e riccioluto, con addosso un’uniforme che i presenti conoscevano benissimo.
I tre militari sbiancarono in volto, e fu finalmente il mio turno di farmi due risate… sommesse, per non indispettirli e buttare dalla finestra il vantaggio che avevo appena guadagnato.
L’uomo comparso dal nulla si fermò un istante. Fissò me, studiò gli altri tre, e ricominciò ad agitarsi, senza però riuscire a muoversi di un solo passo, come se fosse rinchiuso in un invisibile tubo di vetro. Per non correre rischi, comunque, preferii richiudere la scatola di fiammiferi. L’uomo scomparve di nuovo.
Mi guardai attorno con prudente soddisfazione.
I tre spettatori erano esterrefatti.
Mi liberai con calma della stretta del buon Biagio, sedetti sulla sedia messa davanti alla scrivania presumibilmente per questo scopo, e chiesi: – Posso avere adesso la vostra attenzione? Cercherò di essere conciso, per quanto mi sarà possibile. Ma la situazione è estremamente grave…
L’agente di guardia era seduto dietro una vecchia scrivania, subito oltre la porta, in un angolo dell’atrio. Un omaccione avanti con gli anni, stempiato, ed un’espressione stufata sul volto che sembrava più somatica che legata ad una particolare contingenza. Sedia in bilico, gambe anteriori sollevate e spalliera contro il muro, era intento a sfogliare una rivista che di certo non aveva comprato.
Non prese il mio arrivo come un piacevole diversivo, contrariamente a quello che mi sarei aspettato. Anzi, parve seccato. Per qualcuno, a questo mondo, la noia è uno stato mentale appagante.
– Sì? – fu il cortese monosillabo di cui ritenne opportuno gratificarmi. Beh, sempre meglio che essere mandato in malo modo a quel paese per aver attentato alla sua quiete istituzionale.
Apprezzai lo sforzo compiuto.
Prima di rispondere mi avvicinai, per studiarne bene la faccia.
Niente più di un rassicurante senso di fastidio per la mia irruzione.
Bene.
Comunque, non ero disposto a fidarmi più di tanto.
– Chi comanda, qui? – chiesi, senza preamboli.
– Giorgio Napolitano, al momento – rispose con fare paterno, indicando con un cenno della testa la foto del nostro presidente appesa su una parete. Per pura cortesia contemplai un istante il ritratto, poi tornai a fissare il tizio. Nessuna espressione d’orgoglio per la simpatica battuta. Probabilmente, non ne ero stato il primo beneficiario. Doveva avere all’incirca il doppio dei miei trent’anni, e meno della metà dei guai che avevo io.
– È qui, adesso? – domandai, stando al gioco.
– Lo aveva informato della sua visita? – chiese quello di rimando. Per tutta risposta, lo guardai come un ebete, senza una parola. Il tizio interpretò la cosa come un “no” e strinse le spalle, come per dire “e allora di che ti lamenti se non si è fatto trovare?”.
– Qualcuno che ne fa le veci, in questa stazione?
– Se per lei va bene, c’è il maresciallo Barile.
– Mah, se il presidente lo ha designato come suo sostituto, sarà di certo all’altezza dell’incarico – commentai, fingendo di ignorare che in Italia, di norma, non funziona esattamente così.
Mi squadrò per la prima volta da capo a piedi, e fermò lo sguardo sull’oggetto che avevo in mano. Sembrava che lo scambio di battute lo avesse svegliato dal suo torpore.
– O.K. Carta di identità e motivo della visita.
Posai il documento richiesto sulla scrivania, in silenzio.
– Nome?
– Aldo De Buono.
– Professione?
– Impiegato.
– Da dove viene?
– È scritto tutto lì. Può controllare.
Decisamente, gli avvenimenti non stavano prendendo una buona piega.
– Va bene – si spazientì. – Cosa deve riferire al maresciallo?
– Esatto.
– Esatto… cosa?
– Esatto… quello che ha detto: riferire al maresciallo. A lui, in persona.
Lasciò cadere la rivista sul tavolo e riportò la sedia in una posizione più stabile. Con calma, ma alquanto irritato, pronto a levarsi di scatto e minacciare tuoni e fulmini per il mio atteggiamento ingiurioso. Lanciai un’occhiata al giornale che aveva messo giù, e vidi che si trattava di un noto mensile d’informatica. Poi tornai a guardarlo in faccia.
Assurdo.
Era chiaro che la mia prima impressione era stata corretta: non l’aveva comprato lui.
Il tipo sembrò leggermi nel pensiero, e l’imbarazzo che provò lo riportò a più miti pensieri. In fondo, la noia in cui si stava crogiolando, fino al mio arrivo, costava molto meno fatica che indignarsi per la mia mancanza di rispetto. E poi, poteva riconquistare facilmente quelle condizioni di estasiata serenità, non aveva che da accompagnarmi dal capo e tornare al suo posto a scavarsi il naso.
Con un leggero sbuffo, si alzò per farmi da guida, e di nuovo i suoi occhi si posarono sull’affare che avevo con me.
– Cos’è quello?
– Questo? – chiesi per conferma, sollevandolo. – Un fucile ad acqua. Un giocattolo. È di mio nipote. Sembra vero, eh?
Non ero serio nel suggerire che un arnese di plastica colorata in rosso, giallo e blu sgargianti, e dalle forme improbabili, potesse realmente somigliare ad un fucile vero, ma il mio interlocutore annuì, meditabondo, il che mi offriva tre possibili interpretazioni: o che le mie conoscenze in fatto di armi da fuoco erano molto limitate, o che lo erano le sue, o, infine, che si era proprio rotto gli zebedei di me e delle mie battute, e voleva chiudere una volta per tutte quella penosa discussione. – Lo lasci qui.
– Niente da fare. Devo parlare con il maresciallo proprio di questo.
Gli diede un’altra occhiata, scosse il capo, e s’incamminò davanti a me senza obiettare altro. Questo indicava che, con ogni probabilità, le mie e le sue conoscenze in fatto di armi erano paragonabili, e che la sua necessità più impellente riguardava i due gemellini che teneva costretti nei pantaloni.
L’ufficio del maresciallo era alla fine di un lungo e semibuio corridoio con le pareti scrostate in più punti, ed un consunto parquet di legno bisognoso di una buona passata di bitume come la strada davanti casa mia. Il carabiniere bussò discretamente con le nocche, attese una risposta che udì solo lui, poi aprì la porta e si affacciò all’interno ad annunciarmi. – Maresciallo, c’è un tizio che chiede di parlare con lei.
L’interpellato dovette rispondere con un cenno della testa, perché neppure stavolta udii niente, ma il mio accompagnatore si fece da parte per farmi passare. Lo individuai, guardando nella direzione verso cui aveva parlato la mia cordiale ed affabile guida, seduto dietro una massiccia scrivania scura, mentre un altro uomo in divisa rovistava in uno schedario dislocato contro la parete opposta.
Entrai offrendo al militare che mi aveva condotto fin lì un sorriso riconoscente che voleva essere di commiato, ma il trattamento che avevo riservato ai suoi attributi doveva essere stato così doloroso da spingerlo, anziché tornare ansiosamente al proprio ozio trasognato, ad entrare anche lui, pur di farmi dispetto, a seguire personalmente il caso.
Pessima mossa, per entrambi. Per me, perché ne avrei avuto uno in più da tenere a bada. Per lui, perché avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento che stavo riservando agli altri due.
Sperai che ci pensasse il capo a rimandarlo al suo posto, visto che ciò non era in mio potere, ma quello era tutto preso nella contemplazione della formidabile arma che portavo con me, e non badò neppure all’indebita intrusione del suo sottoposto.
Rassegnato, mi diressi verso il graduato, mentre l’aiutante distoglieva la sua attenzione dallo schedario che stava consultando per dedicarla a me dapprima, poi al fucile ad acqua che stringevo nel pugno. Qualche goccia cadde sul pavimento, indicando che era carico.
– Dica – esordì il maresciallo Barile, senza distogliere lo sguardo dalla mia arma giocattolo. Da quelle parti, i convenevoli non dovevano essere molto di moda.
Mi adeguai.
Tralasciai saluti di rito e dichiarazioni preliminari, impugnai con entrambe le mani il fucile ad acqua, lo sollevai, e stantuffai un paio di volte.
– Cosa conta di… fare? – mi chiese il funzionario. A giudicare dal lieve tremore nella sua voce, sembrava preoccupato.
Quindi aveva capito alla perfezione quali erano i miei propositi.
Misi l’arma in posizione di tiro, mirai su di lui e feci fuoco… voglio dire, acqua. Lo spruzzo lo centrò in pieno volto, e lo stupore gli impedì perfino di ripararsi o cercare di sfuggire al getto che lo stava raggiungendo.
Come spettacolo fu divertente, ma non ero lì per sollazzarmi, e ne avevo altri due da sistemare prima che si riavessero dalla sorpresa. Così spostai la canna puntandola contro l’attendente e innaffiai anche in quella direzione. Stavolta la mira fu meno precisa, ma altrettanto efficace, ed una grossa macchia scura comparve sulla camicia del militare. Sapevo per esperienza che il tessuto non offriva una valida protezione contro ciò che gli avevo sparato addosso, per cui considerai… liquidata anche quella pratica.
Restava il terzo, il mio stagionato accompagnatore dagli attributi disastrati.
Feci per girarmi ed offrire anche a lui la sua dose, ma il tipo, vinto l’iniziale stupore, mi abbracciò prima che riuscissi a puntargli l’arma contro. Poco male: stantuffai un altro paio di volte, mirai verso l’alto, e sparai ancora. Parte dell’acqua si fermò al soffitto, il resto piovve giù sulle nostre teste, la mia e quella del tizio che mi tratteneva. Allora smisi di opporre resistenza, ed attesi gli sviluppi.
L’agente mi disarmò e mi lasciò andare, asciugandosi la fronte. – Pazzo figlio di puttana! – mi inveì contro.
Bene, niente di quello che temevo.
Poi, vedendo che anche gli altri due erano incavolati e basta, mi rilassai, e mi rivolsi finalmente al maresciallo. – Immagino si starà chiedendo il perché di questo scherzo – esordii.
Sbagliavo.
Il sottufficiale si girò prima verso il suo aiutante, e, indicandomi, commentò acido: – Ecco uno che sa usare gli eufemismi.
Poi si voltò di nuovo verso di me e sbraitò, in rapido crescendo: – NO, NON MI STO CHIEDENDO IL PERCHÉ DI QUESTO SCHERZO! NON ME NE FREGA UN CAZZO DEL PERCHÉ DI QUESTO SCHERZO. L’UNICA COSA CHE MI INTERESSA È SBATTERTI DENTRO A CALCI IN CULO, E FARTI MARCIRE IN UNA CELLA FINCHÉ NON TI SARÀ PASSATA LA VOGLIA DI ROMPERE I COGLIONI ALLA GENTE CHE LAVORA!
Come finezza lasciava parecchio a desiderare, ma dovetti ammettere che il suo lessico era concettualmente chiaro e rigoroso.
L’agente che mi aveva condotto fin lì mi agguantò per un braccio, confidando che il suo superiore lasciasse a lui il piacere. Io mi divincolai e mi lanciai contro la scrivania.
– No, aspetti un attimo, posso spiegare tutto… Non era uno scherzo, si tratta di una cosa maledettamente seria!
– SPIEGARE? COME PENSA DI SPIEGARE QUELLO CHE HA FATTO? – continuò a sbraitare quello. Cavolo, l’aveva presa proprio male! Che esagerato, però, per un paio di gocce d’acqua…
L’agente alle mie spalle mi acchiappò di nuovo e mi tirò indietro. Con una presa più salda della precedente. L’amico non aveva nessuna intenzione di farmi sgusciare via un’altra volta.
– No, dannazione, dovete ascoltarmi – li implorai. – La Terra è in pericolo!
– Cazzo! – esclamò il maresciallo Barile, conciso ma espressivo come al solito.
– È così, dovete credermi. Non sono pazzo.
– Pazzo forse no – interloquì il poliziotto che mi aveva preso da dietro, tirandomi via con forza dalla scrivania – ma deficiente sì di sicuro.
– Scommettiamo che adesso tira fuori gli extraterrestri? – ridacchiò il terzo militare, tutto sommato divertito. Se anche gli altri due avessero avuto lo stesso senso dello humour, quel colloquio si sarebbe svolto in maniera assai più pacata. E meno faticosa, visto che per rimanere in quella stanza dovevo resistere con tutte le forze agli strattoni del mio aggressore.
– Esatto – confermai – è proprio così! Siamo sotto attacco! Gli alieni vogliono impadronirsi della Terra.
– E hanno cominciato atterrando nel tuo giardino, giusto?
– No, non nel mio giardino… io non ne ho, giardino. Sono atterrati vicino alla vecchia casa Vitali.
– Casa Vitali? Dove si trova?
– È a qualche chilometro fuori paese… ehm, fuori del “mio” paese.
– E sarebbe? – domandò l’agente che mi teneva stretto. Cavolo, che l’aveva chiesta a fare, poco prima, la mia carta di identità?
Pronunciai un nome, che, ovviamente, non disse niente a nessuno di loro. Sfido, non conoscerei quel buco nemmeno io, se non vi fossi andato ad abitare da qualche anno. È solo una frazione, e di un comune così piccolo che nessuno si sogna di segnarlo sulle carte geografiche. Spesso sfugge persino a quelle stradali, nonostante la grande scala usata in quel caso. Finora, l’unica volta che l’ho visto indicato da qualche parte è stato su Google, ma lì, se non stai attento, mettono in mappa pure quello che ti ritrovi in tasca.
– E dov’è? – chiese l’attendente. – Ne conosco uno in Toscana, mi pare vicino…
– Calabria!
– Calabria?
– Calabria – confermai. – Ed io sto venendo da lì.
– Calabria… saranno almeno seicento chilometri.
– Seicentosettanta – puntualizzai. Fatti in un’unica tirata, a parte una sosta in Campania per un pieno, e tutti ben stipati nella mia schiena. – Non so fin dove sono arrivati… forse non sono nemmeno usciti dal mio paese, per ora, ma non potevo rischiare rivolgendomi ad una stazione di polizia troppo vicina. E anche qui non potevo essere sicuro… di chi mi trovavo davanti.
– Così hai pensato bene di spararci prima con il tuo fucile laser, giusto? – intervenne ancora l’attendente, insistendo a buttarla giù sullo scherzo. Il suo senso dello humour cominciava a stancare.
– Non è un laser, è un fucile ad acqua – lo corressi, infastidito.
– Mah, se non altro non è tutto fuori di testa – commentò il militare che mi teneva fermo, senza però cercare di trascinarmi via. Sembrava che la vicenda lo stesse appassionando. E, obiettivamente, doveva riconoscere che era più intrigante dell’astrusa rivista di informatica che stava sfogliando al mio arrivo.
– Ascoltatemi – continuai, con un tono più pacato, visto che lo scontro in atto pareva avere un momento di tregua – mi rendo conto… quello che ho fatto può apparire assurdo, e anche quello che sto dicendo… ma non sono matto. E posso provarlo.
– Provarlo? E in che modo? – anche il maresciallo sembrava essersi calmato. Bagnata a parte, dopotutto, cosa c’è di meglio delle farneticazioni di un povero svitato per ravvivare un noioso pomeriggio di lavoro?
– Se io vi dicessi… di avere un poliziotto in tasca… un carabiniere, come voi… mi credereste?
– E da quando in qua li fanno così piccoli? – chiese l’attendente. Fra tutti, era quello che mostrava di spassarsela di più. Forse perché era quello che si era bagnato di meno.
– Taglia normale – precisai.
– Bene, mi pare che ci siamo divertiti abbastanza – giudicò il maresciallo. – Biagio…
Biagio doveva essere l’agente che mi aveva accompagnato fin lì. La sua stretta sul braccio si fece più forte, e riprese a tirare per portarmi via.
– Un momento, maledizione! Ho fatto solo una domanda. Maresciallo, mi crederebbe se le dicessi di avere un carabiniere nella tasca della giacca? – ripetei.
– Che razza di domanda!
– Okay, mi pare di capire che la risposta sia no. Bene, se adesso lo tiro fuori, mi promette di ascoltarmi?
Il sottufficiale scosse la testa con fastidio. Stava cominciando ad arrabbiarsi di nuovo.
– Quello scuotere la testa è un no, o significa solo che si è rotto?
– Ah, finalmente l’hai capita: mi sono rotto.
– Quindi – insistetti, infilando la mano nella tasca destra della giacca – se le mostro il poliziotto che ho con me mi ascolta!
Biagio ridacchiò, smettendo per un istante di strattonarmi. Ora voleva godersi la mia faccia, quando avessi dovuto arrendermi davanti all’evidenza che in saccoccia non potevo avere nessun poliziotto. O, ancora più probabile, le scene che avrei fatto per convincerli che il poliziotto era apparso davvero.
Tirai fuori la mano e mostrai cos’avevo preso: una scatola di fiammiferi.
– L’hai messo lì dentro? – chiese l’attendente.
Annuii con convinzione. – Per non farlo scappare. E per evitare di schiacciarlo inavvertitamente.
I tre scoppiarono a ridere. Bene, per due motivi: l’atmosfera era più distesa, ora, e questo non avrebbe potuto che giovare al prosieguo del nostro colloquio, primo motivo. Secondo…
Posai la scatola a terra, l’aprii, ed un uomo in divisa comparve dal nulla davanti a me, muovendo le gambe come se stesse correndo, ma senza riuscire a spostarsi di un centimetro. Un tipo giovane, grassottello e riccioluto, con addosso un’uniforme che i presenti conoscevano benissimo.
I tre militari sbiancarono in volto, e fu finalmente il mio turno di farmi due risate… sommesse, per non indispettirli e buttare dalla finestra il vantaggio che avevo appena guadagnato.
L’uomo comparso dal nulla si fermò un istante. Fissò me, studiò gli altri tre, e ricominciò ad agitarsi, senza però riuscire a muoversi di un solo passo, come se fosse rinchiuso in un invisibile tubo di vetro. Per non correre rischi, comunque, preferii richiudere la scatola di fiammiferi. L’uomo scomparve di nuovo.
Mi guardai attorno con prudente soddisfazione.
I tre spettatori erano esterrefatti.
Mi liberai con calma della stretta del buon Biagio, sedetti sulla sedia messa davanti alla scrivania presumibilmente per questo scopo, e chiesi: – Posso avere adesso la vostra attenzione? Cercherò di essere conciso, per quanto mi sarà possibile. Ma la situazione è estremamente grave…
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