Scritto da © Hjeronimus - Mar, 12/04/2011 - 14:37
Avevo finito di leggere qualche giorno fa il famoso libro di Silvio Pellico, “Le mie prigioni”. Scoprendo che ne era valsa la pena. Probabilmente senza saperlo, Pellico aveva scritto uno dei testi più rappresentativi e alti delle lettere italiane di quel secolo lontano. Aveva tirato fuori questa qualità dalla tomba dei morti-viventi dello Spielberg, tetra e rinomata gattabuia asburgica per far morire di contenzione, invece di emendare con la detenzione, i condannati. Le sue ambizioni erano sobrie, soltanto la fede e la testimonianza. Ma invece gli era uscito un capolavoro da far concorrenza a Dostoevskij. Mentre con almeno uno dei suoi propositi era riuscito soltanto a invalidare in parte l’altro, perché aveva voluto significare anche la sua gratitudine alla religione d’avergli fatto colà ritrovare la fede. Si premura lui stesso di scongiurare l’accusa di bigottismo, verosimilmente subodorando già che gli sarebbe stata avanzata. E forse, in fondo, era consapevole della indifendibilità della sua posizione, del suo credo, tornato stranamente in auge al momento del suo arresto, rendendo così evidente la necessità di una qualche ancora ove appendere un avanzo d’avvenire, per sé, i suoi amici pure incarcerati, i suoi cari lontani… Perciò il lettore di oggi è indulgente con queste continue proteste di fede, questi intermittenti appelli al cielo che costellano il racconto, inciampandovi di frequente.
Ma il racconto è in sé un capolavoro. Un capolavoro anche di intelligenza, perché non decade giammai nel piagnisteo ed è continuamente sorretto dalla logica. E’ questa lucidità che conduce infine alla bellezza, illustrando (e sopportando) nobilmente la sofferenza, senza volerci speculare.
Si potrebbe dire, esagerando un pochino, che questo libro sta all’ottocento come quello di Primo Levi sta al novecento. Ambedue di autori piemontesi gettati a marcire in un carcere tedesco, che vi trovano invece la forza di trascendersi attraverso il lavacro della scrittura, mostrando come la vertigine dell’Epos abbia la forza di trasvalutare la terribile “cattiveria” degli aguzzini nella poetica di chi gli sopravvive.
Nota a margine:
Pellico, liberato dalla prigionia, viene accompagnato da autorità asburgiche fino al confine del regno, cioè al confine tra la Lombardia e il Piemonte, sul Ticino. Quando rivede la sua “dolce Italia”, dopo 10 anni di carcere duro, l’emozione è tale da farlo ammalare. È accudito tuttavia da un commissario austriaco e dal suo attendente, Stundberger. Questi diviene l’ultimo poi, sul Ticino, ad accomiatarsi da lui. Ecco come Silvio Pellico descrive il congedo finale: “Il pover’uomo gridò ancora: - Guten Morgen! gute Reise! leben Sie wohl!. Furono le ultime parole tedesche che udii pronunciare, e mi sonarono care, come se fossero stata della mia lingua.
Io amo appassionatamente la mia patria, ma non odio alcun’altra nazione. La civiltà, la ricchezza, la potenza, la gloria sono diverse nelle diverse nazioni; ma in tutte havvi anime obbedienti alla gran vocazione dell’uomo, di amare e compiangere e giovare.”
E poco prima aveva ammonito: “Pensate che partendo da un dato svantaggioso qualunque (e dov’è una società od un individuo che non abbiane di tali?) e procedendo con rabbioso rigore di conseguenza in conseguenza, è facile a chicchessia il giungere a questa conclusione: - Fuori di noi quattro, tutti i mortali meritano d’essere arsi vivi. - E se si fa più sagace scrutinio, ciascuno dei quattro dirà: - Tutti i mortali meritano d’essere arsi vivi, fuori di me –“.
Ecco, ci sono razzisti, da noi, anche partiti razzisti, che ancor oggi, a due secoli di distanza da queste parole, sono più indietro, nel grado di civiltà, di quei due secoli. Qualcuno che ancora non arriva a comprendere che altre patrie implicano amori diversi, mica l’odio.
Quanto alla seconda delle mie citazioni, c’è ancora qualcuno, oggi, da noi, che seguendo il filo del rogo più o meno meritato dal genere umano, è arrivato ad installarsi sul seggio più alto di quella stessa entità nazionale per cui il Pellico aveva sacrificato la propria libertà. Fatti i dovuti raffronti, è una cosa indecente il confrontare gli alti ideali di Pellico con la bassissima colata di fango che ha travolto la sua dolce Italia…
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