- Che cosa c’è dietro il cielo?
- Non lo so, cara.
- Come non lo sai? Le mamme sanno sempre tutto.
Sandra, anni 4
Era un cielo scuro, quella sera. Denso e acre come una storia che tardava a venire. Avevo inutilmente telefonato più volte a casa tua. Speravo di agganciare la tua voce prima che la notte ricoprisse i miei incubi. Ti avevo seguita nel pomeriggio, osservandoti mentre vagavi tra le vie nel centro in cerca di negozi. Inconsapevole della mia presenza, scivolavi tra i passanti calamitando i loro sguardi. Mi ero avvicinato per ben due volte sino alle tue spalle, osservando la nuca, da dove scendevano, rigorosamente tagliati a caschetto, i tuoi rossi capelli.
Avrei potuto allungare la mano, sfiorarli con una carezza, ma la magia del momento si sarebbe dissolta per sempre. Eri improvvisamente entrata in quella chiesa. Ti avevo seguito, incuriosito dal tuo insolito gesto e con il timore che tu mi potessi scorgere. Entrando, avevo spostato i pesanti tendaggi che schermavano la porta, la penombra e l’odore di cera mi avevano subito colpito, come l’improvviso silenzio. Ti eri seduta nei primi banchi di quella chiesa deserta.
Osservavo il riflesso delle candele accese sotto l’immagine della Madonna che gettavano strane ombre sulla tua figura. Eri completamente assorta e nel medesimo tempo distaccata e lontana. Ferma nella tua statuaria postura, sicuramente stavi pregando un Dio lontano che solamente tu, in quell’istante, sentivi al tuo fianco.
Mi ero spostato nell’ombra di una colonna, da lì osservavo il tuo viso che abbozzava un arrendevole sorriso. Mi chiedevo a cosa stavi pensando ora.
Ricordavo le ombre del tuo corpo nudo, proiettate sulla moquette, dove, sommersa dai tuoi abiti, faceva curiosamente capolino la punta di una tua scarpa. Il tuo profumo si era sovrapposto all’odore di cera e di chiuso. Mi sentivo serrare la gola. Avevo voglia di uscire e di accendermi una sigaretta. Di arrendere i polmoni a quel fumo che scendeva sempre più giù, dentro di me.
Dentro di me, dentro di te. Rivedevo il tuo viso sconvolto dal piacere, in quelle ore pomeridiane trascorse nel mio studio improvvisato ad alcova. Ogni tuo gesto era impresso nelle parti più nascoste della mia mente. Stavi soffrendo, ora? Dai tratti del tuo viso, che la scarsa illuminazione mi consentiva di vedere, pareva di no.
Ti eri alzata all’improvviso dal banco, scostando con gesto automatico quel ciuffo ribelle di capelli, che ti scivolava negli occhi da sempre, e dopo una breve genuflessione ti eri diretta verso la porta. Avevo lasciato trascorrere qualche minuto, poi ero uscito anch’io. Con uno sguardo circolare ti avevo cercato tra la folla, ma tu eri ormai scomparsa. Pioveva, avevo sollevato il colletto della giacca a protezione del capo, ed ero corso verso il parcheggio. La tua automobile era lì, parcheggiata tra una Land Rover e una Punto. Passandogli a fianco avevo intravisto, ancora appoggiata sul cruscotto, la busta con gli esiti di laboratorio.
- Non è più un ritardo! – mi avevi detto, sventolando i fogli davanti al mio viso, mentre sorridevi gioiosa. Poi avevi aggiunto:
- Speriamo che sia una bambina!
- Ma io non voglio! – avevo risposto di getto, e le parole erano fuoriuscite dalla mia bocca rotolando come macigni tra noi. Poi avevo aggiunto:
- Cercheremo una clinica. Vedrai andrà tutto bene, non ti accorgerai di nulla e…
- No! – Il tono tagliente della tua voce non ammetteva repliche. Eri uscita dallo studio, e poi dalla mia vita. Scomparsa!
Il tuo telefono era ormai muto da settimane. Ti avevo cercato ovunque, senza alcun risultato, poi la tua amica Betty, la più cara, quella cui eri legata sin dai tempi del liceo, mi aveva dato un biglietto. Conteneva alcune tue parole.
Ho deciso di tenere il bambino,
cambierò città.
Dimenticami.
Silvia
E così fu. Vagavo disperato, aggrappandomi ad ogni traccia, per quanto tenue o esile fosse. Avevo sottoposto a terzo grado tutti i tuoi parenti e rivoltati, come guanti, i tuoi amici, che poi erano anche i miei. Ma tutto risultò vano.
Passarono numerosi mesi, e mentre io mi maceravo nella tua assenza, un mattino trovai nella buca delle lettere il seguente biglietto.
Puoi trovare Silvia là, oltre il cielo…
Un’amica
Se non fosse stato per la gravità della situazione, sembrava un vaneggiamento di un folle. Certo, la nostra storia correva sulle bocche dell’intero paese, ma sinora i commenti erano stati furtivi e discreti.
Passavo le ore della giornata a pensare a quella lettera. Quale era il significato di quelle parole?
Fu una sera, nel preciso istante in cui, affacciato alla finestra mentre osservavo il cielo, mi ritornò alla mente quella gioiosa giornata d’agosto.
Eravamo sulla terrazza, tu, io, Marco e Betty. Guardavamo il cielo, schermato dalle colline di levante, ricordo che tu abbracciandomi dicesti:
- Mi porteresti per sempre là, dove finisce il cielo e inizia il mare?
- Blog di Rinaldo Ambrosia
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