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Silvio&Pelico

Giuseppe fa il poliziotto, da dieci anni lo fa. È entrato per concorso per titoli ed esami il suo compare lo aveva avvertito che era stato pubblicato il bando con una telefonata da Roma con un cellulare blindato lasciatogli avvertitamente sul tavolo dal vice vice vice vice vice vice vice piantone della portineria con contratto a tempo determinato prorogabile a tempo indefinito.

Il suo problema era i contributi figurativi non versati dall'Istituzione in quanto, essendo figurativi, l'ufficio legale dell'Istituzione stessa, dopo svariate ricerche di sentenze di merito e di cassazione aveva stabilito, ope legis, che non spettava all'Ente versarli, bensì all'Ente pubblico all'uopo delegato.

Medesimo il luogo di origine, una zona tra terra mare cielo a cento metri ovest libeccio 74 dal terminale 11 del porto di Gioia Tauro, un piccolo scoglio dove il padre e la madre dei due ora colleghi s'erano avventurati con un barchino lo stesso termine d'estate per farsi una trombata senza che qualcuno, i benpensanti della zona appunto, rompesse loro le balle non essendo ancora, questi loro genitori, dichiarabili coniugi.

In tal modo sia Maria che Natalina dopo due mesi esatti s'erano potute sposare in chiesa con tutti gli addobbi di gigli immacolati, il Requiem di Mozart che l'organista ufficiale non era venuto ed era stato sostituito all'ultimo istante da un allievo che l'unica cosa fino ad allora imparata era quello, e con il vestito bianco delle zie perché le madri fin da giovani, avevano tutt'altra stazza. Il vestito delle madri era così rimasto nel cassone di legno di cedro aspromontino simile per essenza a quello del Libano, forse lì portato dai Fenici meridionali nel 348 a.c. e dimenticato, a disposizione di un'altra figlia la quarta guarda caso, di entrambe che cresceva troppo bene avendo già a otto anni, pura coincidenza è chiaro, la settima di seno.

Così erano nati e si era conosciuti Silvio & Pelico, in un bar dell'angiporto di un altro settimino il cui padre era scappato in Senegal diciotto anni prima non sopportando di vivere oltre a ridosso della presunta vedova gioiataurina conosciuta nello stesso bar lasciatole graziosamente dal marito. Marito espatriato a Sidney Australia dieci giorni prima che il senegalese arrivasse al Sud e si impiegasse, all'ordine di un caporale, nella raccolta di pomodori da far seccare sulle lunghe grate e poi invasare sott'olio di semi vari provenienti dall'Angola con aggiunta di peperoncino detto diavolo prodotto del nostro territorio, foglie di lauro anche queste prodotti d.o.p., origano di Norveglia che si secca immediatamente basta metterlo vicino non troppo ad un qualunque fuoco, grani di pepe Zanzibar e, a tempo appena a scadere, l'espatriato dato per scomparso che voleva rifarsi una vita come si doveva.

Il coetaneo loro, attuale gestore insieme alla madre del suddetto bar, notabene per e a chi possa interessare, si chiama Benin. Benin Moustapha, Benin di cognome perché ce ne sono pochi, io non ne conosco perlomeno, che di cognome, tra il popolino degli immigrati, si chiami Moustapha prefisso Ibn.

Aggiungo che ora la madre di Benin si vede ad ogni sbarco con un marinaio turco che si occupa di trasferimenti logistici, trasporta cioè la roba naturale al cento per cento tranne un disprezzabile taglio a suo uso personale dal suo Paese prendendola direttamente in consegna dal fornitore fino al bar Gelsomino, quello di Benin, dove la stessa viene consegnata ad un ventenne ivi residente che durante la sua assenza si fa nel retrobottega la madre di Moustapha, però è troppo giovane perché la donna possa considerarlo degno di ulteriori e più concrete considerazioni e quindi non lo porta in camera perché nel retro lo tiene di più sotto controllo e, lasciando un sottilissimo spiraglio tra la tenda e lo stipite, può inoltre osservare Benin che non si freghi i soldi dalla cassa.

Ma dicevo di Pelico, che ora si trova in una crisi di depressione spaventosa tanto che pensa di essere impossibilitato a recarsi in ufficio e di chiamare quindi il medico alle sette,05 del mattino 15 aprile perché non riesce quasi a respirare. Le ha provate tutte, le caramelle d'orzo prima, quattro una dietro l'altra, una per disperazione ingoiata con la carta e tutto, poi è passato alle Valda, quindi le Ricola originali svizzere, poi uno sciroppo che tiene nell'armadio nel ripiano sotto le divise, una cosa tipo Bronchettanasolgol, alla fine un'aspirina effervescente ma niente, quel piccolo screzio della voce che gli arriva a toccare le tonsille, non fa grinze e ripieghi. Rimane fermo lì all'inizio della gola e non gli vuol passare.

Pelico nemmeno vuol pensare che si tratti di un'incipiente infezione, pensa invece che sia successo la sera, quando all'ennesima retata il suo collega di cognome Silvio e lui hanno deciso che essendo solo due, se le sarebbero potute portare a casa e morta lì.

Invece quella stronza ha chiesto un aiutino e Pelico Giuseppe s'è molto ma molto irritato che quasi, pur essendo sorta una meravigliosa aurora romana, ancora gli vien sù quel ponentino risicato.

 

 

 

 

 

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