Scritto da © nunzio campanelli - Sab, 20/10/2012 - 01:38
Quell’anno la siccità colpì duro, tanto che già a metà del mese di Luglio i minuscoli ruscelli che consentivano alla nostra terra di dissetarsi erano asciutti, con il fondo pietroso e polveroso come se l’acqua non ci fosse mai scorsa.
I miei genitori andavano ripetendo che non saremmo riusciti a sopravvivere a un’altra stagione arida, e che se avessimo perso ancora il raccolto, non avremmo più avuto la possibilità di pagare i debiti. La banca si sarebbe presa tutto.
Mio nonno, Domenico, era arrivato qui da giovane con i suoi genitori, mezzadri sfollati rimasti senza terra a causa di un lungo periodo di carestia. Aveva sedici anni, e giurò che mai più nessun padrone li avrebbe cacciati da casa. Lavorò tanto, e con lui tutta la mia famiglia. Impiegarono vent’anni per raggiungere la somma necessaria per comprare la “Scuola”, nome con cui era conosciuto il podere, mutuando il nome con cui da tempo immemorabile veniva chiamato uno dei fabbricati annessi.
Era una costruzione piuttosto bassa a un solo piano, di non grandi dimensioni e di forma quadrata. Mio nonno diceva che la Scuola era stata costruita molto tempo prima della nostra casa, e che così come la vedevamo allora era ciò che rimaneva di un fabbricato molto più grande, distrutto poi dalla cura del tempo e dall’incuria degli uomini. Per supportare il suo racconto, un giorno mi fece vedere una pietra su cui erano incise delle parole che io non riuscivo a capire. A quei tempi facevo la terza media, e mi vantavo di essere il più istruito della famiglia. Nonno si era fermato alla seconda elementare, però aveva sopperito alla mancanza d’istruzione sviluppando una saggezza che proveniva da un’indole riflessiva unita a una notevole capacità di comprensione. Di fronte all’evidente interesse che stavo dimostrando, decise che era ora che io venissi a conoscenza di alcuni fatti avvenuti parecchi anni prima. Mi fece mettere comodo, e cominciò un racconto che subito divenne una recita, tanta era la sua capacità di immedesimarsi nei vari personaggi. Ne riporto di seguito una trascrizione nella consapevolezza che rappresenta solo una pallida copia dell’originale.
Portai quel frammento di marmo da Don Aldo, allora parroco di Santo Apollinare, la nostra chiesa. Quando lo vide divenne subito pensieroso e mentre lo guardava con ansia mista a curiosità mi domandò.
- Dove lo hai preso, Domenico? –
- Non è mio, padre. Me l’ha dato un vicino che dice di averlo trovato mentre lavorava la terra. Lui ha paura della roba sotterrata, dice che è tutta opera del maligno! –
- E tu non hai paura? -
- No padre. Voi avete sempre detto che non bisogna aver paura di ciò che non conosciamo, e che ci sono tante cose, nel mondo, opera di nostro signore, che noi non riusciamo nemmeno a immaginare. –
- Sì, ma io intendevo…ma lasciamo perdere. E che vuoi da me, vuoi che lo benedica?-
- Padre, se serve faccia pure. Male non fa. Però sono venuto per chiedervi se potete leggere quello che c’è scritto. Io so leggere, ma non riesco a capire nulla di queste parole. Secondo me è latino, come la messa che dite la domenica! –
Il parroco, senza parlare, mise gli occhiali e cominciò a leggere le parole incise sulla lapide. Dopo un po’ alzo gli occhi e guardò bene in faccia mio nonno.
- Senti Domenico, quel tuo amico che ha trovato questa pietra, è persona fidata, oppure avrà già raccontato a mezza contrada del ritrovamento? –
- Non vi preoccupate, padre, è come se l’avessi trovata io. Di me vi fidate, no?-
- Sì, soprattutto quando racconti la verità. –
Rispose il prete, che intanto aveva preso carta e penna cominciando a ricopiare le parole incise sulla lapide. Sembrava colpito da quello che aveva letto sulla pietra, e nel riconsegnarla mi disse di nasconderla meglio che potevo, di non parlarne con nessuno, e che semmai qualcuno si fosse presentato facendo domande sulla lapide, avrei dovuto negarne assolutamente l’esistenza.
- Questa è la chiave di accesso a due tesori. Uno fisico e uno spirituale, e conoscerne l’esistenza già di per se è un pericolo. Devo fare delle ricerche, Domenico, per riuscire a interpretare tutto il testo inciso, quindi occorrerà un po’ di tempo. Devi stare molto attento!-
Nonno smise di raccontare, tirò fuori dalla tasca della giacca un mezzo toscano e dopo averlo acceso cominciò ad aspirarne voluttuosamente il fumo, disegnando al di sopra della sua testa dei candidi cerchi . Io ero in ansia per conoscere la fine del racconto, ma sapevo che in quei momenti mio nonno era come rapito, quasi in estasi.
Visto che non si sbrigava, alla fine lo incalzai.
- Allora nonno? –
- Calma, calma, noi vecchi abbiamo ormai pochi piaceri dalla vita, lasciami gustarne uno. –
- Il parroco poi riuscì a tradurre la scritta? –
- Non lo so, non credo. –
- Come non lo sai. Non ci hai parlato più? –
- No. –
- No? E perché? –
- Perché morì dopo qualche giorno, nel bombardamento del ’44. Era andato in città dal vescovo, e al ritorno capitò proprio in mezzo. Fu una carneficina. –
Io rimasi senza parole, seriamente dispiaciuto per quello che successe al povero prete, ma anche terribilmente deluso di non poter conoscere la soluzione di quel mistero. Feci partecipe mio nonno del mio disappunto.
- Ma allora nonno non sappiamo che cosa c’è scritto su questa lapide. –
- Tu no, ma io sì –
Nonno, quando voleva, diventava un bravo attore. Riuscì a confondermi completamente.
- Ma se il parroco morì, chi te l’ha detto? –
- Stimmler! Rudolph Stimmler! -
- Rudolph Stimmler!? E chi è? –
- Lo hai conosciuto anche tu! Ma non puoi ricordarti, eri troppo piccolo;
avrai avuto tre, quattro anni al massimo. –
Nonno mi fece segno di seguirlo. Ci recammo fuori, sul cortile, da dove si poteva scorgere tutta la vallata. Un panorama magnifico. Mi fece segno di guardare in un punto preciso, che indicò con un dito.
- Vedi la in fondo, dopo la ferrovia, la strada fa una gobba, un rialzo; lo vedi? Bene quello è il ponte della Barchetta. Lo hanno ricostruito da poco, fino a qualche anno fa c’era un ponte di barche, ecco perché ora si chiama così. Ma prima ancora del ponte di barche c’era un vero ponte, Il 16 Luglio del 1944 si scatenò l’inferno. Gli americani cominciarono a bombardarlo fin dal mattino, ma non riuscivano a centrarlo perché sganciavano le bombe da alta quota; i tedeschi avevano una contraerea formidabile. Per tutta la mattinata gli americani cercarono con le loro bombe di impedire ai tedeschi di oltrepassare il ponte, per tutta la mattinata i tedeschi mitragliarono gli aerei americani per impedirgli di bombardare. Poi, verso mezzogiorno, di colpo calò un silenzio assoluto su tutta la valle. Gli aerei non sorvolavano più la zona, e le truppe tedesche, oramai completamente a nord del fiume, stavano ferme sulla strada. Noi non capivamo che cosa stesse succedendo, sapevamo solo che era una cosa irreale. Avevamo tutti una gran paura.
Poi, di colpo, le nostre domande ebbero un'unica, impressionante risposta. Ci fu un’esplosione, e vedemmo una colonna di fumo levarsi verso l’alto, proprio nel punto in cui c’era il ponte. –
- Gli americani! –
- No, figlio mio, i tedeschi! –
- Ma come, nonno, se i tedeschi difendevano il ponte! Erano gli americani a volerlo abbattere. –
- Si, certo. Ma questo finché i tedeschi non furono tutti al di qua del ponte. Poi i ruoli s’invertirono, ora erano loro a volerlo buttare giù. –
- Nonno, io non ci capisco niente! –
- E’ normale. Di tutte le irrazionalità dell’uomo, la guerra è di gran lunga la più eclatante, la più evidente delle pazzie. Non siamo venuti al mondo per ucciderci tra noi, ma sembra che non sappiamo fare altro!-
Nonno si fermò un momento, lo sguardo perso sull’orizzonte, come se stesse inseguendo un pensiero. Poi mi riaccompagnò dentro, riprendendo il racconto.
- Ma il mondo va così perché vogliono che vada così, e noi non possiamo
farci niente.
I tedeschi fecero esplodere il ponte perché volevano ritardare gli alleati e
raggiungere il grosso delle loro truppe concentrate un po’ più a nord,
dove stavano creando una linea di confine fortificata che andava
dall’Adriatico al Tirreno, la linea gotica. La strada che dovevano percorrere
è proprio quella che passa qui da noi, quella che va su in paese. Giunsero
davanti casa che saranno state le tre o le quattro del pomeriggio. Uno di
loro parlava bene l’italiano; ci disse di schierarci sull’aia, di stare tranquilli,
che loro volevano solo roba da mangiare, che avrebbero regolarmente
pagato. Noi però avevamo una gran paura, avevamo sentito storie di
rappresaglie, uccisioni. Poi quel loro modo di parlare, quegli ordini secchi,
quasi sputati.
Allora, io, presi un po’ di coraggio e affrontai quello che parlava italiano,
che da come si comportava e da come gli ubbidivano i suoi uomini capii
essere il comandante. –
Nonno si adagiò sullo schienale della sedia, prese il fazzoletto dalla tasca per asciugarsi il sudore della fronte, guardò un attimo fuori dove il sole di luglio stava infuocando l’aria e la terra, poi ricominciò il racconto, ritornando agli avvenimenti che quella sera modificarono per sempre il percorso della sua vita, e quindi della nostra.
- Senta colonnello, consenta almeno alle donne ed ai bambini di andare in
casa, al riparo dal sole, altrimenti si sentiranno male! –
- Maggiore Rudolph Stimmler, prego. No in casa non poso permettervi di andare, troppo grande per controllarvi tutti. Cos’è quella costruzione la, in fondo? –
- Ma, noi la usiamo come magazzino, deposito… insomma un po’ di tutto –
- Mi sembra abbastanza ampia per tutti. Sergente, accompagni queste persone in quel fabbricato, e metta due soldati di guardia. –
Ci fecero accomodare tutti dentro la scuola, mentre il resto delle truppe stava setacciando l’intera fattoria per trovare quanta più roba da mangiare. Io li guardavo dalla finestra, e osservandoli bene mi resi conto che anche loro, gli invasori, erano in realtà dei disgraziati che cercavano di sopravvivere e poter far ritorno a casa il prima possibile. C’erano una grande quantità di giovani, alcuni avranno avuto al massimo diciotto anni, e benché possa sembrare strano provai compassione per loro.
Mentre osservavo i soldati intenti ad accumulare i viveri, vidi il maggiore Stimmler avanzare verso di me, guardando fisso nella mia direzione. Impaurito mi ritrassi dalla finestra, ed andai a sedermi al centro della scuola, insieme a tutti gli altri. In quel momento il maggiore entrò, ed io aspettandomi qualche guaio mi alzai in piedi, per andargli incontro. L’ufficiale mi precedette, e mi fece segno di rimanere seduto.
- Prego, prego. Malgrado le circostanze le assicuro che ho sempre amato l’Italia e gli italiani. Prima della guerra ho girato tutta la penisola per vedere le vostre meravigliose bellezze architettoniche ed artistiche. –
- Strano modo di amare, il vostro, visto che state lasciando morte e
disperazione, dietro di voi! –
Mi guardò a lungo. I suoi occhi erano talmente chiari da sembrare bianchi, con appena un accenno di azzurro. Non erano gli occhi di una belva, ma di un uomo molto stanco. Lentamente si sollevò, riprese il suo contegno e mi chiese di accompagnarlo fuori.
- Le ho chiesto di venire fuori perché ciò che sto per dirle è molto
importante, per voi ed anche per me. Ma mi deve promettere che, quando
sarà venuto a conoscenza di quanto sto per dirle, lei agirà secondo giustizia
e coscienza. –
- Mi scusi, ma non la capisco –
- Senta, io l’ho osservata bene, lei è il capo di questa famiglia, e mi ha dato
subito l’impressione di una persona giusta, che ha sempre cercato di
operare nel miglior modo possibile in ogni situazione della vita. Mi
sbaglio? –
- Non so se sono giusto, ma sulla seconda parte del suo discorso non si
sbaglia. –
- Questo mi basta. –
L’ufficiale tedesco si fermò, guardò il sole che di lì a poco si sarebbe tuffato dietro i monti dell’Appennino, poi mi porse un foglio di carta scritto a matita con una fitta calligrafia che mi parve di riconoscere.
- Lei conosce l’autore di questo?-
Io guardavo quel foglio senza capire nulla di quello che c’era scritto. Stavo per dirlo al maggiore, quando vidi le ultime frasi riportate su quel foglio, e rimasi senza fiato. C’era un accenno ad un edificio chiamato scuola. E c’era anche il mio nome. Erano gli appunti di Don Aldo.
- Chi gliel’ha dato!? –
- E’ capitato sulla mia scrivania una settimana fa. L’avevano trovato addosso al cadavere di un prete, morto sotto le bombe degli americani. –
Disse le ultime parole guardandomi dritto negli occhi, nel tentativo di scorgervi dei sensi di colpa. Non riuscendoci, continuò.
- L’hanno consegnato a me per via della mia attitudine con le antichità
italiane, e perché sono un conoscitore della lingua latina. –
- Lei sa interpretare queste scritte? –
- Certo! –
- Come è riuscito a trovarci? –
- In questa valle tutti conoscono la scuola, e tutti conoscono Domenico. –
- Che cosa significa quella scritta?
- Prima sia così cortese di farmi vedere la lapide! –
- Quale lapide!? –
Rudolph Stimmler si sedette su una panca in legno di fianco all’abbeveratoio, azionò la pompa facendo uscire un po’ d’acqua con la quale si rinfrescò il viso, bagnò il fazzoletto che poi appoggiò sulla nuca.
- Un viaggio in Italia è un esperienza che ti cambia la vita, talmente
scioccante vedervi così abituati a tutti i tesori di cui disponete in grande
quantità che per voi sembra normale andare a lavare i panni in un
lavatoio del cinquecento, come ho visto fare qualche giorno fa qui vicino.
Voi ci odiate, vero? Ci odiate e ci considerate stupidi. Dica la verità. –
Rimasi stupito da quelle parole, e cercavo quelle giuste per rispondere senza offenderlo.
- In merito all’odio penso che è il minimo che ci si possa aspettare quando
si tenta di sbranare un territorio così come state facendo adesso.
Rappresaglie, esecuzioni di massa, sterminio, distruzioni e ruberie…ma
queste cose lei gia le sa. Per quanto riguarda la stupidità, posso solo
parlare per me, ed io non ho mai commesso l’errore di attribuire le colpe di
pochi imbecilli a tutto un popolo. –
- Le chiedo allora di non iniziare a farlo adesso. –
Improvvisamente mi sentii in colpa verso quel soldato. Avrebbe potuto ottenere quello che voleva con la violenza, ordinare ai suoi militari di saccheggiare e poi bruciare la casa e il raccolto, come già successo in tanti posti. Lui invece se ne stava lì, chiedendo solo di essere considerato come un uomo, e di venire trattato di conseguenza. Gli feci cenno di seguirmi, e mi diressi verso il forno, una piccola costruzione in muratura. In un vano della parete c’era il mucchio delle fascine. Le tirai fuori, poi con le mani cercai sul fondo di quella specie di vasca. Da sotto uno strato di parecchi centimetri di frammenti di legno, segatura e polvere estrassi la lapide. Uscendo da quell’angusto locale con quella scura pietra sulle mani, con alle spalle i riflessi morenti del sole, devo aver fatto un strana impressione al maggiore, che volle subito prenderla in mano per poterla vedere bene. Poi ricordandosi di far parte dell’esercito più disciplinato del mondo, me la riconsegnò dicendomi di nasconderla sotto la camicia, chiamò gli ufficiali subordinati intimandogli di non disturbarlo per le prossime due ore, e ci dirigemmo verso la scuola. Chiesi e ottenni di farvi rientrare in casa, e ci ritrovammo soli in quell’edificio, con la sola luce crepuscolare rinforzata da una lampada a petrolio.
Appoggiai la lapide sopra un tavolo, mi ritrassi e feci segno al maggiore di venire avanti. Questi si avvicinò, prese il lume in mano, e lentamente cominciò a leggere.
- Qui hunc locum violaverit sacer sit…
Il maggiore Stimmler lesse l’intera iscrizione, e nel buio della stanza quel lento salmodiare, unito al tremolio della fiammella della lampada, conferivano a quella scena uno spessore di sacralità, quasi egli fosse l’officiante di un antico rito pagano ed io un fedele adepto. E in qualche maniera poteva anche essere così, forse quella sera quell’ufficiale tedesco ed io non facemmo altro che riscattare secoli e secoli di aspre battaglie, contese sanguinarie e guerre fratricide tra due popoli che, sempre attratti l’un l’altro, non si sono mai capiti e mai amati. O forse in realtà stavo semplicemente sragionando, a causa delle forti tensioni subite nel corso di quella lunga e memorabile giornata.
Stimmler finì di leggere quell’antica iscrizione e per alcuni istanti rimase immobile, fermo sotto il peso dei suoi pensieri. Poi cominciò a parlare.
- Il prete aveva intuito la giusta via per decifrare questa iscrizione, le sue
note riportate sul foglio sono tutte esatte. Credo però che avesse preso del
tempo per potersi documentare sulla prima parte dell’iscrizione. Vede, in
realtà la scritta scolpita sulla lapide non è un unico testo, ma due, anzi, tre.
Incisi, tra l’altro, in epoche molto diverse, talmente distanti tra loro che la
prima parte è scritta utilizzando un proto-latino che include nel suo
alfabeto alcuni simboli derivanti dal greco ed altri dall’etrusco. La seconda
parte invece è un chiaro testo di epoca imperiale, sulla cui interpretazione
non ci possono essere dubbi. La terza parte, che in realtà è una postilla alla
seconda, è quella che alla fine più ci interessa –
Io fino a quel momento ero rimasto in rispettoso silenzio, ma credo di aver avuto un impercettibile moto di disappunto al termine di quella dotta dissertazione. Il maggiore Stimmler se ne accorse subito.
- Ho forse detto qualcosa di sbagliato? Magari lei ha un’altra teoria? –
- No, no, maggiore, e che teoria potrei avere io, dall’alto della mia ignoranza. No, è che mentre ascoltavo mi rendevo conto che stavo assistendo alla pratica dimostrazione di una cosa che ho sempre sostenuto, e cioè che la vera ricchezza dell’uomo, la vera nobiltà viene conferita non dal denaro e dai titoli, ma dallo studio, dal sapere e dalla conoscenza. Vede, nel corso della mia lunga vita ho avuto occasione di dover subire ogni sorta di angherie dai rappresentanti della nobiltà e dai loro lacché, mai, però, ho subito l’umiliazione di sentirmi inferiore a loro, mai l’hanno avuta vinta sul mio spirito, Mai ho dovuto abbassare la testa in segno di sottomissione. Mai prima d’ora. Quello di prima non era un segno di disappunto, ma la presa di coscienza di un’amara realtà. Continui, maggiore, la prego. Continui pure. –
- Aspetti a conferirmi lodi, non è detto che poi abbia ragione. In ogni caso mi limito ad indicare solo ciò di cui sono sicuro con un’apprezzabile percentuale di successo. La prima parte dell’iscrizione, risalente probabilmente al V o IV secolo a.c. si apre con una sorta di maledizione nei confronti di chiunque violi questo luogo, o meglio, il luogo originario in cui la lapide fu, o doveva essere, affissa. Prosegue poi con l’indicazione di tutta una serie di regole in merito all’osservazione di sacri precetti, unitamente all’indicazione di norme comportamentali sul modo di esecuzione dei lavori agricoli, relativamente all’andamento delle stagioni. Questa iscrizione è più unica che rara, sommando tutta una serie di caratteristiche che ne rendono il ritrovamento un caso eccezionale. Innanzitutto l’epoca di realizzazione. Se le mie congetture sono giuste, questo è uno dei primi testi scritti in latino. Che io sappia c’è solo la “lapis niger” che potrebbe contenderle la vetustà. Poi il luogo di ritrovamento. In questa zona, nel periodo tra il V e il IV secolo a.c. erano presenti varie popolazioni, i galli al Nord, i piceni in diversi insediamenti sparsi sul territorio, ed i greci lungo la costa. I romani arrivarono intorno al 250 a.c. Quindi questo non è il territorio d’origine della lapide.
In quel momento si udì un tramestio provenire dall’esterno, delle voci concitate e poi un ufficiale affacciarsi alla porta. Stimmler era visibilmente contrariato.
- Tenente, avevo dato precisi ordini! –
- Signor maggiore, il comando…-
- Avevo detto che non volevo essere disturbato! –
- …alla radio, il generale…-
- Insomma, tenente, si spieghi! –
- Il generale, signor maggiore, la vuole subito alla radio!-
Stimmler ebbe un moto di stizza, poi mi fece segno di coprire la lapide e mi disse di aspettarlo. Ritornò dopo una buona mezz’ora, il volto trasfigurato da una smorfia, un tic appena percettibile alla palpebra sinistra.
- Dobbiamo andare via subito. Dovremmo anzi essere già per strada. Non ho
più tempo, non ho più tempo…Io non volevo niente per me, solo il merito
della scoperta, il mio nome sui libri. Domenico, mi ascolti bene. Non
posso finire la traduzione dell’intera iscrizione, ma ciò che più ci interessa
è scritto nell’ultima riga. Prenda nota. Qui vicino, nei dintorni, ci deve
essere un luogo sacro ad Apollo, dove una volta c’era un tempio. Bisogna
cercare nella toponomastica, un nome che faccia riferimento ad Apollo.
Meglio, alla pianta sacra ad Apollo, l’alloro. Cerchi un luogo che reca nel
nome un riferimento alla pianta di alloro. Una chiesa, antica, molto antica.
Molti templi romani sono stati abbattuti per costruirvi delle chiese. Mi ha
capito, Domenico? Non so, forse sono pazzo a dare credito ad una
iscrizione di quasi duemila anni fa, ma sono certo di aver ragione. Se
troverà questa chiesa, cerchi nella cripta, nei sotterranei, lì troverà un… un
tesoro. Ma, si ricordi, esso non appartiene né a me né a lei, appartiene
all’umanità, ed a lei dovrà tornare. Me lo giuri, Domenico! –
- Non si preoccupi, maggiore, glielo prometto. Ma lo faremo insieme,
quando questa porcheria di guerra sarà finita, lei tornerà qui e cercheremo
insieme la chiesa. Io la aspetterò, maggiore! –
- Sarebbe bello, Domenico, sarebbe tanto bello. Ma lei cominci a cercare, io
se potrò, la raggiungerò. Addio, Domenico, mi raccomando la lapide, non
ne parli e non la faccia vedere a nessuno. Essa dovrà ricongiungersi con il
tesoro. Ah, dimenticavo. Questi sono per i viveri. Dovrebbero bastare. –
Mi consegnò un rotolo di banconote per un importo considerevolmente superiore al valore della merce prelevata.
- Maggiore, è molto di più di quanto mi deve! –
- Dice? Vorrà dire che mi darà il resto quando ritornerò! Arrivederci Domenico!-
- Arrivederci maggiore Stimmler!-
Le truppe tedesche in meno di mezz’ora furono pronte alla partenza, che avvenne in gran fretta. In cima alla colonna militare, su un’auto un ufficiale affacciato al finestrino guardava l’oscurità, e sembrava vedere bene quello che stava cercando. Il suo occhio sinistro aveva un tic appena percettibile alla palpebra, ed un lacrima, a lungo repressa, si fece finalmente strada lungo la guancia.
Io guardavo nonno negli occhi, che cominciarono ad annebbiarsi non appena finì di raccontarmi del maggiore Stimmler. Si alzò in piedi, e facendo finta di scacciare una mosca inesistente, si asciugò una lacrima. Quando si rimise a sedere aveva riacquistato la sua solita espressione serena.
- Che dici, figliolo, una bella storia, no!? –
- Si nonno, ma il tesoro… che fine ha fatto? –
- Che fine vuoi che abbia fatto. Sta dove deve stare. –
- Come, non sei riuscito a trovarlo? –
- Marco, dimmi la verità. Che cosa pensi di me? –
- Che vuoi dire? –
- Rispondi alla mia domanda. Pensi che io sia una persona seria? –
- Penso che tu sei la persona più seria del mondo! –
Nonno mi fece una carezza sul viso, sorridendo.
- Vedi, Marco, tu lo dici ed io so che lo pensi veramente, perché mi conosci,
e mi vuoi bene, almeno credo. -
Arrossii in modo evidente. Nonno non ci fece caso. Proseguì il discorso.
- Quello che sto cercando di dirti e che al di fuori di questa famiglia io non
conto niente, non mi conosce nessuno, o quasi, fatta eccezione di qualche
altro contadino qui intorno. Don Aldo era morto, la parrocchia venne
accorpata con un'altra di città e, si sa, i preti cittadini odiano la campagna
ed i contadini, che potevo fare io da solo? Chi sarebbe stato a sentire un
vecchio campagnolo farneticare di templi, di Apollo, di tesori? Te lo dico
io, chi. Nessuno,e in più mi avrebbero preso per matto. –
Rimasi in silenzio, non sapendo cosa dire. Ma la delusione per aver sentito parlare di un tesoro e la successiva constatazione di non poter fare niente per ritrovarlo mi spinsero ad insistere.
- Ma la lapide l’avevi tu, no? Anzi, l’hai tu, eccola! –
Dissi in piena trepidazione, non potendo sopportare quella ammissione di impotenza.
- Un uomo ha una sola parola. Ed io l’avevo data al maggiore Stimmler. Gli
dissi che l’avrei aspettato, e l’ho fatto. Anzi, lo sto facendo. Non è morto,
ne sono sicuro! Senti, Marco, vieni qui, ascoltami bene. Io , come tutti,
dovrò morire, e penso che succederà tra non molto. Toccherà a te, allora,
custodire la pietra, aspettare che il maggiore ritorni e completi la
decifrazione del testo.-
Morì dopo poco più di un anno da quel giorno, nel mese di Settembre del 1955. Aveva 81 anni. Il podere venne ereditato da mio padre, che fece del suo meglio per farlo rendere, ma la sua incompetenza, unita allo sperpero di denaro che a papà riusciva in modo particolarmente efficace, ci portarono presto sull’orlo della rovina. La siccità, che quell’anno fu particolarmente dura completò l’opera, e ben presto perdemmo la proprietà del podere. La Scuola, acquistata da nonno nel 1910, non era più nostra. La mia famiglia comunque non dovette andarsene; la banca, divenuta proprietaria del nostro podere, si accorse di aver fatto un ben misero affare, considerato che negli anni del boom economico, chiunque abitasse nelle campagne se ne andava in città, se poteva, e a nessuno veniva nemmeno pensato di compiere il percorso inverso. Il nostro podere venne messo all’asta più volte, ed ogni volta questa andò deserta. Ci accordammo con la banca, e con un piccolo affitto mensile potemmo continuare ad abitare nella nostra casa. La lapide si trova ancora nella buca delle fascine, nel forno, e credo che nessuno, a parte me ed il maggiore Stimmler, ne conosca l’esistenza.
30 Ottobre 1958
Ho appena finito di leggere il mio vecchio diario, che è saltato fuori questa mattina dopo un sonno durato quasi 52 anni, quando per un ghiribizzo della mente mi sono messo a rimestare in mezzo alle mie carte di studente diciottenne, su in soffitta. Non l’avevo certo dimenticata quella storia, solo, diciamo così, riposta in un cassetto della mente un po’ fuori mano. Sono stato assalito da un fiume di ricordi; nonno, i miei genitori, la Scuola… il maggiore Stimmler non si fece più sentire, probabilmente, se riuscì a sopravvivere alla guerra, si dimenticò anche lui della lapide, e del tesoro.
Mi è sembrato di ritornare indietro nel tempo e nello spazio, di rivedere nonno mentre mi mostra quella vecchia pietra e mi racconta la vicenda. Ah nonno, quanto gli volevo bene. Chissà, a quel povero vecchio piaceva tanto scherzare; magari si inventò tutto!
Dintorni di Jesi (Ancona) Giugno 2010
Chiesetta di Santa Maria degli Aroli
Un gruppo di turisti tedeschi, soggiornanti nelle vicine località di mare, in visita alle bellezze architettoniche dell’entroterra. La loro guida si pone al centro del gruppetto ed inizia la sua illustrazione.
“ Questa piccola chiesa, risalente all’undicesimo secolo, è un gioiello dell’architettura gotica, ed è inserita perfettamente nell’ambiente circostante che, seppur caratterizzato dall’intensivo utilizzo del territorio, nella zona immediatamente a ridosso è rimasto integro. Come potete vedere, la chiesa è circondata da un piccolo bosco di allori, da cui il nome ( aroli deriva dal latino laurum). Alcuni studiosi sono certi di aver localizzato in questo posto il sito originario del tempio di Apollo, che sappiamo per certo essere esistito in questo territorio in epoca romana. L’alloro era l’albero consacrato ad Apollo.
Narra la leggenda che il tempio di Apollo contenesse un grande tesoro, che sarebbe ancora presente in questo posto, in un segreto locale sotterraneo.
L’esatta localizzazione di questa cripta è riportata in una lapide di marmo. Inutile dire che nessuno ha mai visto questa iscrizione. Ma questa è appunto una leggenda.
Se mi vogliono seguire all’interno…”
Una ragazza, nell’udire questa storia, chiama la madre.
- Mamma, questa storia è uguale a quella che ci raccontava il nonno! –
- Si, Hanna, lo so! Povero papà, la guerra lo ha segnato profondamente. Sempre con questa storia di tesori. Non riuscì più a riprendersi! Che caldo, chissà quando potremo ritornare in spiaggia. Senta, lei, quando partiamo?-
- Ancora un po’ di pazienza, signora Stimmler, fra poco si parte. -
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