Scritto da © nunzio campanelli - Mer, 24/10/2012 - 09:08
- Che cosa resterà di me dopo la morte? -
Antonio Silvani pronunciò ad alta voce la domanda che si era posta più volte negli ultimi giorni. Si alzò dalla poltrona per iniziare un lento percorso circolare intorno alla scrivania di fronte alla quale sedeva non senza manifestare disagio una giovane giornalista.
- Risponda prego!-
Pressata dall’uomo la ragazza sentì il dovere di specificare i ruoli.
- Guardi che le domande le dovrei fare io. –
- Che significa! Non si attacchi alle convenzioni, al quieto vivere, al gioco delle parti. Alla sua età, cazzo, un po’ di coraggio, d’iniziativa!-
- Veramente, non saprei…-
- Ecco, la solita affermazione tipica dei mediocri che si rifugiano dietro le parole vacue per nascondere il vuoto della loro esistenza. -
- Come si permette…-
- Come parla, le parole sono importanti, dovrebbero insegnarlo a scuola questo, le parole sono importanti… -
Antonio Silvani, l’uomo più famoso della nazione e probabilmente il più ricco, si sedette di nuovo, prendendo la stilografica tra le mani. Sembrava manifestare interesse per quella penna, ma il suo sguardo oltrepassava l’oggetto perdendosi nel vuoto.
La ragazza, dopo essersi asciugata una lacrima, senza parlare si alzò in piedi avviandosi lentamente verso la porta.
- Dove sta andando? –
Non ottenne nessuna risposta, ma il passo della giornalista ebbe come una leggera esitazione.
- Torni indietro. –
La donna continuava a dirigersi verso l’uscita.
- Per favore. -
Il ticchettio causato dagli alti tacchi della giornalista nel ritornare indietro produsse un interessante effetto doppler.
- Lei ha accettato di essere intervistato alla sola condizione di poter scegliere il nome del giornalista. Perché io? -
- Non ho risposte per tutti i suoi perché. Sieda, prego. –
La giovane reporter guardò a lungo il viso dell’uomo, che nel vederla pronta a ribattere la precedette.
- Ho solo chiesto al suo direttore di mandarmi il redattore più giovane. -
- Perché? –
- Non ricominci, per favore! -
Continuò a guardarlo negli occhi. Poi rispose alla sua domanda.
- Resteranno le sue azioni. Loro parleranno di lei.
- Le mie azioni?-
Antonio Silvani riprese a girare in tondo, poi si avvicinò alla ragazza.
- Sto morendo. –
Lei non rispose. Solo, abbassò un poco lo sguardo.
- Mi ha capito? Ripeto: sto morendo. Un cancro. Allo stomaco. -
Si avvicinò ancora alla giornalista. Le loro facce quasi si sfioravano.
- Che cosa sa lei di me? –
- Che vuol dire? .
- Si sarà documentata prima di intervistarmi, spero! –
- Certo! Ho consultato il data base del giornale. –
- Quindi lei non sa niente. Come tutti del resto. Non sanno niente di me. Non sapete niente di me. –
La donna si scosse. Quell’uomo le stava troppo vicino, poteva avvertirne il fiato sul viso. Silvani se ne accorse e si allontanò un poco.
- Mi dispiace averla rattristata. –
- No, prego. Mi scusi, ma lei parla della morte, della sua morte, come se si trattasse di una formalità, una pratica burocratica. Si preoccupa di ciò che rimarrà di lei quando invece dovrebbe preoccuparsi di cosa ne sarà di lei, o almeno della sua anima. –
- Guardi, la questione anima, o coscienza se preferisce, l’ho risolta da tempo. Semplicemente, non esiste. Quella voce interiore che dovrebbe guidare le nostre azioni, che dovrebbe aiutarci a discernere il bene dal male è un’invenzione letteraria, un sostrato della mente, una concrezione cresciuta nel tempo. Mi guardi bene signorina, cercherò di spiegarle in poche parole un concetto basilare, una verità. Il bene e il male non possono esistere come entità separate tra loro, come se fossero dei filtri da utilizzare per setacciare quell’entità limacciosa nella quale siamo immersi che chiamiamo vita. Il bene e il male sono in realtà tra loro avviluppati tanto da formare in pratica un unico organismo, nel quale vivono in completa armonia. Pensi al giorno e alla notte. Non è che uno si sostituisce all’altra, ma avviene una lenta trasformazione della luce. Così siamo noi. Siamo stati concepiti nel bene e nel male, e in esso vivremo e moriremo. –
- Lei sta parlando di yin e yang. –
- Se preferisce può usare questa definizione, ma io sto parlando di chimica, di geni, di DNA. La vita non si conclude con la morte. Si compie con la morte. Ognuno di noi, venendo al mondo, deve compiere un ciclo completo, deve chiudere il cerchio. Con la morte chiudiamo questo cerchio. Questa è la vera immortalità. –
- Scusi, ma non la seguo. Come può parlare d’immortalità negando la sopravvivenza di una parte di noi, seppur spirituale. È necessario avere un’anima, come si potrebbe altrimenti giustificare l’esistenza di milioni di miserabili se non dando loro la speranza di una vita migliore, di un riscatto. –
- Lei parla di speranza. È un concetto antico, antecedente alla cristianità. I romani la raffiguravano come una dea, Spes, con una cornucopia in mano. Spes ultima dea. Credo conosca quest’antico detto, no? –
- La speranza è l’ultima a morire. Beh, non c’è nulla da spiegare, mi sembra chiaro. -
- Lei parla così perché è giovane, venticinque, ventisei anni? Ventotto dice. Appunto. Ma chi è prossimo alla morte, come me, potrà spiegarle che quel detto acquisisce un significato ben diverso. Comunque non incolpi me se la chiesa si è impadronita dei concetti delle antiche filosofie ribaltandone, a volte, il significato, e non è colpa mia se la stessa professa umiltà agli umili alleandosi invece con i potenti. -
Tornò a sedersi sulla sua poltrona. Con estrema lentezza aprì un cassetto della scrivania, prese una busta voluminosa e la poggiò sul ripiano.
- Ecco, questa è per lei. Qui c’è scritto tutto. No, non la apra, lo farà più tardi in ufficio o a casa, dove vuole lei ma non qui.-
- Il significato? –
- Se lo cerchi da sé. -
La reporter prese la busta guardandola a lungo con aria interrogativa, poi senza altri scrupoli la mise in borsa.
- Suppongo che l’intervista sia finita! –
- Se ne vada per favore. –
Senza stupirsi degli strani modi di quell’uomo, lo salutò e fece per andarsene.
- Un’ultima cosa, signorina! –
- Sì!? –
- Quello che c’è dentro la busta potrà cambiarle la vita, e insieme alla sua quella di tante altre persone. Faccia attenzione, la prego. Molta attenzione. –
- Io non farò mai del male a nessuno, si rassicuri. Il mio compito è divulgare la verità. Arrivederci. –
Antonio Silvani guardò la porta chiudersi, prese un sigaro da un astuccio di cuoio e lo portò alla bocca, accendendolo. Dopo un paio di ampie tirate, guardò di nuovo verso la porta, poi, come se la giovane reporter fosse ancora presente, disse:
- A volte l’unica speranza è morire. -
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